
Westworld e il potrei ma non voglio – Recensione della terza stagione
Magari qualcuno se li ricorda ancora quei tempi. Quando esistevano i colloqui genitori – insegnanti ossia quelle ore di attesa per parlare cinque minuti scarsi con il docente per avere informazioni sul rendimento scolastico. E poi magari ti arrivava tra capo e collo un diplomatico “è capace ma non si applica”. Che vuol dire tutto e non vuol dire niente. Che non sai se era una complicata verità o una pietosa bugia. E, quindi, cosa dire di quello studente che ti è caro. O della terza stagione di Westworld?

Una serie che ce l’aveva fatta
Soprattutto poi quando lo studente è stato fin lì considerato uno dei migliori della classe. Cosa che si può ben dire della serie figlia di Lisa Joy e Jonathan Nolan perché Westworld si è guadagnata meritatamente un attestato di qualità che l’ha resa ancora di salvezza per chi volesse evitare di naufragare in un mare di prodotti livellati pericolosamente verso il basso. Merito di una prima stagione fatta di dialoghi sopraffini, tematiche profonde, riferimenti culturali raffinati, sceneggiatura stratificata, trama complessa, regia e fotografia cinematografiche. Il tutto condito da una recitazione superba con Anthony Hopkins e Ed Harris a primeggiare in un cast dove brillavano con abbagliante lucentezza anche Evan Rachel Wood, Thandie Newton e Jeffrey Wright.
Ingredienti che si erano un po’ persi in una seconda stagione che aveva conservato la maggior parte del cast e dei personaggi, ma aveva iniziato a preferire il gioco ancora affascinante dell’intersecarsi complesso di piani temporali sfalsati ad una ricchezza tematica intrisa di spunti filosofici. Il season finale della passata stagione aveva trasportato i personaggi fuori dal parco catapultando un gruppo ristretto di host nel mondo degli umani. Situazione sicuramente intrigante che lasciava ben sperare per la terza stagione.
Cosa poteva andare storto? Come potevano gli autori di Westworld sbagliare un calcio di rigore? Gioverà ricordare che anche Maradona i rigori li sbagliava ogni tanto e Baggio ne tirò alle stelle uno nella finale dei mondiali di USA 94. E così anche Lisa Joy e Jonathan Nolan sul dischetto sono andati con quella troppa sicurezza che facilmente si trasforma in perniciosa sicumera. Non che la terza stagione di Westworld sia priva di vette di scrittura e recitazione. Ma proprio quel quinto episodio che tanto aveva fatto gioire i fan più speranzosi è diventato, infine, l’emblema accusatorio di quel che poteva essere e non è stato.
Perché da quel momento la terza stagione ha dimostrato di non sapere più che cosa fare da grande. Bisognava a questo punto scegliere di andare avanti con coraggio indomito. Invece, è stata la paura inattesa dell’avventurarsi nell’hic sunt leones a frenare la fertile mano creativa degli autori.
Degradando Westworld da serie che ce la fa a serie che ce l’ha fatta.


Nave senza nocchiero
La vendicativa ed enigmatica Dolores. Il tormentato e intelligente Bernard. La magnetica e indomabile Maeve. Questi i tre assi che Westworld poteva giocare al tavolo di questa terza stagione. E poteva anche permettersi il lusso di scegliere a chi affidare il ruolo di quarto asso. Se alla Charlotte Hale ritrovatasi suo malgrado nel corpo di un host o al William Man in Black perso nel labirinto di una follia incontrollabile. Nessuno avrebbe avuto certamente nulla da obiettare se invece questo ruolo fosse finito ad una delle due prestigiose new entry, l’ex soldato Caleb interpretato da Aaron Paul e il magnate Serac di Vincent Cassel.
Eppure, tale opulenza finisce per trasformare gli autori nel proverbiale asino di Buridano. Messo di fronte a due mucchi ugualmente ricchi di prelibato fieno, muore di fame perché non sa quale scegliere. Non succede fortunatamente questo a Westworld perché di intelligenza a Joy e Nolan ne resta comunque più di quanto basti ad assaggiare entrambe le possibilità nell’attesa di decidere. Ma la sensazione di incompiutezza e occasione sprecata lasciano sul palato un sapore troppo amaro per poter dire che si è mangiato davvero bene.
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Il risultato è una stagione ondivaga dove non è mai chiaro esattamente chi farà cosa e perché, chi sta da una parte e chi da quella opposta. Esemplare, in questo senso, quanto accade al dualismo protagonista – antagonista. Per quanto queste categorie siano da sempre sfumate in una serie complessa quanto Westworld, era stato comunque sempre chiaro il perché se non il come dei personaggi il che permetteva di creare le classiche coppie eroe – villain. Se questa cosa non riesce in questa stagione non è perché ci sia una varietà di significati, ma perché ogni personaggio si muove senza seguire una direzione precisa e coerente con il modo in cui ci è stato presentato finora.
Così Dolores appare alle volte come la distruttrice di mondi che lo spettatore è abituato a conoscere, salvo poi virare di botto nella madre pietosa che soccorre anche i figli non suoi. Serac viene spesso presentato come l’astuto stratega capace di prevedere e anticipare ogni mossa dei suoi avversari, per poi assumere atteggiamenti incomprensibilmente spavaldi nelle situazioni più rischiose. Più difficile ancora inquadrare una figura come quella di Caleb con gli autori impegnati più a delinearne il passato con flashback confusi che a scriverne il presente. Cosi che alla fine Caleb fa quasi la figura del cucciolo spaesato che insegue la mano che gli ha dato un biscottino saporito dopo che è rimasto troppo tempo a rovistare nella spazzatura.
La terza stagione di Westworld finisce per essere una nave senza nocchiero che riesce a non andare alla deriva solo per la perizia di marinai coscienziosi che in porto vogliono arrivarci comunque nel miglior modo possibile.


Quel che resta di Westworld
A spingere la nave in porto è la presenza di spunti interessanti che richiamano il Westworld che lo spettatore ha imparato ad amare. La storyline principale si ricollega felicemente al problema del libero arbitrio in una società fantascientifica dove l’intelligenza artificiale non è più un sogno lontano, ma una minaccia possibile. Siamo davvero liberi di scegliere o le nostre azioni sono anelli saldamente legati ad una catena di causa ed effetto creata fuori dalla nostra volontà? Quanto possiamo consapevolmente deviare dalla consequenzialità di questa retta? Chi ci riuscisse dovrebbe essere considerato una scheggia impazzita da sopprimere prima che divenga la farfalla il cui battito d’ali manda in tilt una macchina che non sa ragionare fuori da un rigoroso determinismo? Meglio rassegnarsi ad un futuro già scritto, ma sereno o preferire una libertà illimitata anche a costo di una anarchia distruttrice?
Domande sulle quali si sarebbe potuta costruire la terza stagione per restare coerenti con lo stile quasi filosofico della serie. Ed, invero, l’introduzione di Reboham e Solomon in questa direzione sembrava voler andare. Una svolta certamente coraggiosa perché avrebbe significato staccarsi in maniera definitiva dal parco delle prime stagioni e lanciarsi in un mare aperto di sconfinate possibilità. Ma gli autori sono stati inaspettatamente vittime del potrei ma non voglio. Perché simile decisione avrebbe significato anche chiudere con personaggi storici che difficilmente si sarebbero potuti adattare a questa storia.
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Con buona pace degli spettatori più affezionati ai loro feticci. Per accontentare loro, la serie finisce per sfiorare il fan service. Lo fa quando regala camei privi di spessore e funzionalità a volti noti come Clementine, Hanaryo, Lawrence, Musashi, Hector, Sizemore. Quando riporta in scena Stubbs per renderlo cavalier servente di un Bernard che girovaga senza meta. Quando regala perle come quelle della seduta di gruppo di William con le sue tante versioni senza che il ruolo del fu Man in Black sia chiaro e non una serie di apparizioni il cui legame con l’evolversi della storia è quantomeno labile.
Finendo per fare persino di Maeve un personaggio le cui azioni non sono perfettamente logiche e in accordo con il carattere fin qui mostrato. Perché la combattiva ex maitresse si ritrova quasi invischiata a forza nel duello Serac – Dolores muovendosi tra i due poli opposti come una biglia impazzita. E regredendo nell’uso dei suoi poteri solo perché una katana è più scenografica.
Westworld avrà una quarta stagione per chiarire se vuole seguire fino in fondo le immense potenzialità che ha. Ma deve farlo con chiarezza perché non è vero che non è mai troppo tardi per decidere cosa fare da grandi.
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