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Black Mirror ossia la serie che non c’è più – Recensione della sesta stagione della serie creata da Charlie Brooker

Com’era bello essere fan di Black Mirror!

Aspettare con trepidazione la nuova stagione e premere il pulsante play con la motivata certezza che ci si sarebbe immersi in un viaggio pieno di ansia e disagio, ma anche di domande intelligenti e riflessioni in cui immergersi.

Ognuno degli episodi della serie antologica creta da Charlie Brooker non aveva paura di scegliere la via più difficile e di sfidare lo spettatore a seguirlo. La moneta era preziosa, ma la merce lo era ancora di più grazie all’inimitabile scrittura, alla qualità superiore della regia, alla scelta del cast. Come era bello pagare quel prezzo e godersi storie che non sarebbero affondate nel mare magno dell’oblio in cui si perde il 90% della produzione seriale.

Tanto era bello allora quanto è brutto oggi essere stati fan di Black Mirror. Perché quella serie che amavamo è cambiata ex abrupto diventando altro. Lasciandoci come innamorati che dopo anni di felice matrimonio rientrino a casa trovando la classica moglie a letto con un altro. Nonostante non ci avesse mai fatto capire che le cose non andavano.

Black Mirror: la recensione
Black Mirror stagione 6: la recensione – Credits: Netflix

Echi di un passato perduto

Sono cinque gli episodi che compongono la sesta stagione di Black Mirror. Episodi autosufficienti con storie che iniziano e finiscono come è da sempre per una serie antologica. Solo che questa fedeltà al formato classico è puramente di facciata come la fede di chi va a messa ogni domenica per abitudine e non per convinzione. Lo stesso accade a queste cinque puntate che vengono meno a quello che era uno dei fondamenti della serie. Quell’unità nella diversità. La capacità, cioè, di affrontare la stessa tematica declinandola in aspetti diversi per costringere lo spettatore a pesare ogni tesi per raggiungere la sua propria sintesi.

Non è affatto così in questa sesta stagione. Anzi, sarebbe stato persino meglio che ogni episodio fosse stato reso disponibile separatamente senza finire sotto l’etichetta Black Mirror che, a questo punto, è un falso spudorato. E non lo rende meno falso il fatto che sia un falso d’autore visto che a realizzarlo è proprio quel Charlie Brooker che della serie è padre e padrone. Tanto padrone da avocare a sé anche il diritto di uccidere la propria creatura. Un’artista che brucia la propria opera perché non riflette più il suo modo di vedere l’arte.

Esemplare, in questo senso, è il terzo episodio che è senza dubbio il migliore. A salvarlo, però, non è il suo autore, ma un Aaron Paul capace di interpretare due personaggi differenti nello stesso corpo rendendo evidente la differenza di carattere giocando con sguardi e gesti, silenzi e parole. Beyond the Sea è anche l’unico episodio in cui si sentono echi del Black Mirror che fu. L’idea degli androidi collegati alla mente dei due astronauti in volo nello spazio in un 1969 alternativo riporta la serie al tema caro del rapporto tra l’uomo e la tecnologia. Alle meraviglie che può regalarci e agli incubi in cui può precipitarci. L’argomento è quello giusto, ma lo svolgimento si perde presto in un prolisso allungarsi in scene inutilmente lente. All’angoscia solita si sostituisce una stanca monotonia che trascina la storia verso una conclusione anticipata fin dall’inizio.

Non basta un’ultima scena feroce nella sua cinica quiete a salvare quel che resta di un tempo passato i cui echi sono ormai troppo flebili.

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Black Mirror: la recensione
Black Mirror stagione 6: la recensione – Credits: Netflix

Alla ricerca di un nuovo presente

Ingannevoli, ma per un motivo diverso, sono anche Joan is awful e Loch Henry, i due episodi iniziali della stagione 6 di Black Mirror. Sembrerebbero, infatti, voler indicare una nuova strada per Black Mirror proponendo una tematica differente, ma comune ad entrambi. Non più il rapporto con la tecnologia, ma quello con la tv seriale sia come fruitori che come autori. Un tentativo che risulta, però, fallace perché manca sia della profondità tipica della serie sia della imprevedibilità delle storie. Alla fine, l’unico elemento comune a spiccare è la presenza del servizio di streaming Streamberry, palese riferimento alla stessa Netflix che presta anche il suo iconico tu-dum. Una concessione più che altro al padrone di casa che ama farsi prendere bonariamente in giro giocando la parte del cattivo senza che le accuse divengano mai serie.

Joan is awful vorrebbe prendersi gioco della fede cieca che riponiamo in ogni servizio che ci chieda di accettare per proseguire. Senza mai chiedersi davvero cosa si sta accettando. Come fa appunto la protagonista Joan (interpretata da Annie Murphy da Schitt’s Creek) che vede le sue giornate diventare episodi di una serie tv in differita. O la stessa Salma Hayek che interpreta una sé stessa che ha ceduto la sua immagine per replicare qualunque cosa faccia Joan anche se lei non sarebbe d’accordo a mostrarsi in quelle situazioni.

Il problema è che questo tema diventa occasione per uno sterile gioco di specchi che resta in superficie senza mai affrontare le conseguenze. Nessuno sembra, infatti, preoccuparsi di quel che accade tranne Joan stessa. Tutti gli altri a cui pure viene rubata la privacy si limitano a guardare incuriositi. Anche lo sbrigativo finale non ha un seguito alla Black Mirror, ma anzi porta ad una conclusione dolciastra che mai avremmo visto in passato.

Loch Henry vorrebbe, invece, sottolineare come non solo gli spettatori, ma anche gli autori possano finire schiavi del sistema televisivo imperante. Come i due giovani studenti di cinema che partono per realizzare un documentario su un collezionista di uova, ma si convincono a girare una serie true crime su una macabra storia passata. Che questa coinvolga anche la famiglia di uno dei due è un problema al quale si può passare facilmente sopra in nome della certezza che un prodotto del genere avrebbe sicuramente un successo maggiore e sarebbe appetito dai colossi dello streaming. Anche in questo caso, il tema è giusto e la conclusione apprezzabile, ma è tutto il resto del compito ad essere sciatto e svogliato. Quello che dovrebbe essere il colpo di scena è talmente telefonato che non c’è neanche bisogno di alzare la cornetta per sentirselo dire.

Se è questo il nuovo presente sulle cui acque Charlie Brooker vuole far navigare la nave di Black Mirror, è probabile che molti passeggeri chiederanno di sbarcare quanto prima.

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Black Mirror: la recensione
Black Mirror stagione 6: la recensione – Credits: Netflix

Un futuro di un altro colore?

Mazey Day e soprattuto Demon 79 sono il colpo di grazia al vecchio amante di Black Mirror. Non perché siano ricchi di pecche e frutto di una scrittura disattenta, ma perché segnano una svolta radicale rispetto al passato. Il primo preannuncia questo cambio di rotta, mentre il secondo lo rende esplicito fin dai significativi titoli di testa. Un eloquente “Black Mirror presents Red Mirror” che fa di Demon 79 quasi l’episodio pilota di una nuova serie. Infilato, tuttavia, a forza in un’altra serie con cui condivide solo la parola Mirror e il nome di chi firma la sceneggiatura. Troppo poco per non sentirsi quasi ingannati perché ci era stata promessa una cosa e ci è stata data un’altra.

Andando per ordine, Mazey Day acquista un proprio valore solo a posteriori. Ossia solo dopo che si è scoperta l’esistenza di Red Mirror. L’episodio è ancora indipendente dagli altri e pare collegarsi ancora una volta al tema del rapporto con i media. A essere ripescata è stavolta la vecchia storia dell’invadenza dei paparazzi, ormai fuori moda. Non si può, tuttavia, negare una certa dose di quel cinismo che farciva il vecchio Black Mirror.

Manca, però, una caratterizzazione dei personaggi che sono solo sbozzati grossolanamente, mentre la stessa protagonista si segnala solo per l’incoerenza delle sue scelte che le fanno fare due passi indietro per ogni passo avanti. È, però, il finale ad essere completamente spiazzante. Ma non in senso positivo. Perché il colpo di scena arriva totalmente inatteso per quanto sia scollegato dallo stile del resto dell’episodio. Un finale che si affida ad uno dei classici topos dell’horror per un episodio che con l’horror non aveva niente a che fare.

E, tuttavia, quello era l’antipasto di quanto sarebbe accaduto con Demon 79 che è una storia decisamente horror nelle intenzioni per quanto poco violenta nei fatti. Quel che conta maggiormente, però, è la scelta del soprannaturale a tinte rosso sangue. Un approccio al genere dell’orrore mediato da una protagonista mite e determinata e da un diavolo in stile black exploitation in una storia dove il mostro peggiore è il razzismo. Ma un episodio che tradisce la natura di Black Mirror senza riuscire a far venire voglia di vedere un futuro Red Mirror. Se doveva essere il pilota di una nuova serie, la missione è decisamente fallita.

Dopo l’insuccesso della quinta stagione, si poteva dare fiducia a Charlie Brooker per quanto ci aveva regalato in passato. Ma questa sesta stagione è quel secondo errore consecutivo che ti fa dire che è solo colpa tua se ci caschi una terza volta. D’altra parte, è stato Charlie Brooker stesso con questi cinque episodi a farcelo capire cosa resta da dire: adieu Black Mirror.

Black Mirror: la recensione

Giudizio Complessivo

Il colpo di grazia ad una serie amata e che ora ha rinnegato sé stessa mentre cerca nuove strade senza trovarle

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Winny Enodrac

In principio, quando ero bambino, volevo fare lo scienziato (pazzo) e oggi quello faccio di mestiere (senza il pazzo, spero); poi ho scoperto che parlare delle tonnellate di film e serie tv che vedevo solo con gli amici significava ossessionarli; e quindi eccomi a scrivere recensioni per ossessionare anche gli altri che non conosco

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