
The OA: recensione della prima stagione
Dove c’è stata devastazione, il racconto ricostruisce una forma, ritesse i fili, ristabilisce i collegamenti spezzati. Il racconto è zattera in mezzo al naufragio, arca di Noè dopo il diluvio, tenerezza al posto dell’orrore, voce anziché silenzio, giustizia contro la violenza, ordine nel caos, argine all’oblio. La vita continua nel tempo del racconto.
Benedetta Tobagi
Drama, Sci-fi, Supernatural, Thriller, Mistery, Psychological Show. Riassumere e condensare in una definizione univoca The OA, serie annunciata da Netflix a pochi giorni dalla distribuzione a sorpresa e senza proclami, lontana da febbricitanti countdown e occhi puntati, è impresa ardua e non del tutto corretta. Non solo per la difficoltà intrinseca di liquidare in un genere preciso una serie che, di base, si propone di valicare – se non del tutto ignorare – le categorie d’appartenenza ma anche e soprattutto per la precarietà che deriva dal tentativo di interpretare gli eventi descritti. Anche per questo i più, esausti dal nonsense e dal relativismo che pare ormai dominare la scena televisiva e cinematografica, dai continui inganni della telecamera che indirizza l’occhio dello spettatore e lo induce a interpretazioni di parte, non accoglierà con favore questa serie che ci lascia, a conclusione della sua prima stagione, con pochissime certezze e tante perplessità. Ma forse quegli stessi critici e delusi spettatori non hanno voluto accogliere pienamente l’invito di Prairie, pardon OA (PA nella traduzione italiana) nel prologo del suo racconto (che, non a caso è anche il prologo della serie): “dovete fingere di fidarvi di me, finché non lo farete davvero”. Noi abbiamo voluto provarci.
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The OA recensione della prima stagione

Di cosa parla The OA
The OA non è incentrato sul ritorno di una ragazza scomparsa. Il fulcro della vicenda è un racconto. È per questo che la sigla nel primo episodio inizia solo al minuto 57. Perché ciò che precede non è altro che un preludio introduttivo. The OA è il poema di una bambina che diviene donna e delle vicende che affronta. E delle scelte che compie. È l’oralità di una storia che evoca avventure, peripezie e amori. E che, come ogni grande storia, incanta. I cinque ascoltatori privilegiati ne restano conquistati e totalmente assorbiti, in una parola: coinvolti. È questa la forza della verbum che in tempi ormai lontani, nei racconti del mito e dell’età degli eroi, declamati in canti e musica, formava e istruiva intere generazioni.
Praire come cantore
Prairie diviene quello che nell’antichità era il cantore, l’aedo, il rapsodo (dal verbo greco “cucire insieme”): ricompone in un filo unitario e sensato -per quanto incredibile- un altrimenti insensato orrore, una devastazione psicologica più che fisica. E traspone la sua esperienza nella narrazione trasformandola in partecipazione collettiva. Del suo dolore diventano compagni e non più semplici ascoltatori quei cinque prescelti, persone che, come lei, vivono una sensibilità diversa dal comune a causa di una condizione familiare e personale particolare. Persone che hanno scelto di rispondere a una richiesta d’aiuto per il loro stesso bisogno d’aiuto. È quel ‘trauma vicario’ di cui parla Elias Rahim, il consulente psicologico dell’FBI, interpretato da un superbo -nella sua naturalezza scenica- Riz Ahmed: “Aveva bisogno di essere ascoltata […]. Sai cos’è un trauma vicario? Quando assorbi il dolore di altri affinché sopravvivano”.
È tutta qui la potenza del dolore condiviso: nella razionalizzazione della sofferenza, nella possibilità di “non avere sempre questo fardello” come ammette candidamente Prairie parlando con EB.
La simmetria tra i ragazzi dello scantinato e i suoi ascoltatori nella piccola comunità di Crestwood è un parallelismo voluto: tanto i primi quanto i secondi rappresentano “una nuova famiglia. Scott, Rachel, Homer e perfino Renata. […] Con quella famiglia hai trovato un modo di scorgere la luce in tutto quel buio. E sappiamo che stiamo prendendo il loro posto” afferma lucidamente French rivolgendosi a Prairie nel settimo episodio.
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I cinque movimenti: l’unione e l’affetto che rende forti
La favola, il fantastico, il sovrannaturale divengono allora le forme in cui si esplica il racconto, i mezzi che la mente adotta per nascondere dietro simboli un orrore troppo traumatizzante per poter essere accettato razionalmente. I cinque movimenti diventano espressione dell’unione profonda che si crea tra i prigionieri, la loro vittoria sul carceriere, nella coesione del loro affetto reciproco.
Ma la magia è anche desiderio di libertà, speranza in una fuga che appare impossibile. Volontà di non abbandonarsi allo straziante destino di una vita in cattività. Ultima difesa a cui aggrapparsi per non cedere alla disperazione assoluta.
Su questo percorso sembrano ancora voler indirizzare i produttori della serie quando per nuovo tramite di Elias provano a giustificare i fenomeni di preveggenza di Prairie: “questi sogni arrivano in momenti importanti della tua vita”, afferma il giovane “mi chiedo se non sia il tuo subconscio che cerca di aiutarti”. E conclude poi: “ma se essere sensitiva significasse solo che cogli i più piccoli indizi dall’ambiente?”.
Il sogno come mezzo d’interpretazione della realtà
Nelle scelte cruciali della sua vita, nella difficoltà insormontabile di una situazione di precarietà (il pericolo concreto della mafia ben esemplificato nel pulmino blindato, la condizione di cecità, l’allontanamento dal padre, il raggiungimento della maggiore età), nel disorientamento di fronte a ciò che non si riesce a dominare, il sogno diviene mezzo di interpretazione, al pari del racconto stesso, tentativo di codificazione di una realtà caotica e incerta.
Ma il racconto non è mai unidirezionale. Non giova solo al declamatore ma anche –e soprattutto- all’uditore. È così che quelle avventure a cui tanto intensamente si è porto l’orecchio diventano esperienze simulate, si trasformano, nell’immedesimazione, in conoscenza personale. French guardandosi nello specchio diventa Homer con le sue mancanze e le sue paure ma anche con la forza di chi ha imparato dai propri sbagli. Ed è grazie a questa formazione che i giovani, nella situazione di estremo pericolo, non fuggono, non si nascondono. Nella riproduzione dei cinque movimenti riattualizzano quella coesione di gruppo, quella volontà di non lasciarsi dominare dagli eventi ma di condizionarli e indirizzarli.
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Qual è la chiave di lettura di The OA
Ma allora è tutto qui? Questa è la chiave di lettura di The OA? Parrebbe di sì. Parrebbe dico, perché in quell’ amore che non può essere immaginato”, come afferma PA, ma reale, alla –probabile- presenza di Homer si trova Prairie, di nuovo –facile a credersi- in uno stato di pre-morte.
Ma c’è dell’altro: quei libri che dimostrerebbero la provenienza dell’ispirazione del racconto di Prairie (Gli Oligarchi, L’Iliade, Book of Angels e Encyclopedia of Near-Death Experiences, questi ultimi due fittizi di cui il primo opera di Audrey Ebbs, produttore associato della serie) appaiono un po’ troppo nuovi e un po’ troppo recenti –nella stessa scatola di Amazon- per poter risalire ad almeno sette anni addietro, prima del rapimento.


La stessa presenza di French nella casa di Prairie, in piena notte, lui che non è un “agente sul campo” ma un semplice consulente per le vittime, getta una ombra sulle sue reali intenzioni e lascia aperte le infinite possibilità interpretative.
Quello che è certo è che The OA ci regala un racconto mai banale, coinvolgente e oscuro, ammantato della relatività che inevitabilmente accompagna le nostre vite. Ognuno di noi ha la sua visione, la sua personale realtà, il suo modo di disporsi al mondo: Prairie ha scelto il suo. E non per questo le esperienze vissute e la forza del racconto devono essere considerati meno reali.
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