
Denial: la recensione del film con Rachel Weisz a RFF11
Titolo: Denial (titolo italiano – La verità nascosta)
Genere: storico/drammatico
Anno: 2016
Regia: Mick Jackson
Sceneggiatura: David Hare, Deborah Lipstadt
Cast: Rachel Weisz, Tom Wilkinson, Andrew Scott, Timothy Spall
Difficile che sia una fortuita coincidenza, ma proprio il giorno dopo l’anniversario della deportazione di oltre mille ebrei – di cui solo 17 sopravvissero – dal Ghetto di Roma (16 Ottobre 1943) arriva sugli schermi della Festa del Cinema un film che con l’orrore dell’Olocausto ha molto a che fare.
Denial (ribattezzato in italiano con il più enfatico La verità nascosta) è infatti basato sulla storia vera del processo per diffamazione che David Irving intentò contro Deborah Lipstadt e la Penguin Books. Una normale bega da tribunale? No, anzi. Perché David Irving era all’epoca dei fatti raccontati il più noto esponente del negazionismo, ossia quella corrente pseudo-storica che nega l’esistenza proprio dell’Olocausto riducendo la Shoah ad una leggenda inventata dagli ebrei per farsi ricompensare in denaro andato ad arricchire le casse dell’allora neonato Stato d’Israele. E perché il team legale che difendeva gli accusati riuscì a dimostrare quanto il presunto storico inglese avesse deliberatamente manipolato o omesso le fonti storiche in modo da piegare la ricostruzione dei fatti ai suo deliri antisemiti e razzisti.
Essendo basato su una storia vera (una di quelle che potrebbero scriversi con la S maiuscola) come detto fin dai trailer e dalla sinossi del film, Denial non può ovviamente creare nello spettatore quel senso di incertezza che in genere allieta chi non sa cosa accadrà sullo schermo. Anche l’incertezza che dovrebbe accompagnare il finale, ad esempio, non genera nello spettatore alcuna tensione, dal momento che la parola fine è stata già scritta dalla realtà.
Per essere interessante, quindi, Denial deve puntare necessariamente sui suoi attori ed è su di loro che pesa l’onere di decretare la buona o cattiva riuscita di questo film storico. Peso che tutto il cast riesce a sopportare egregiamente, riuscendo a fare di Denial un racconto molto ben riuscito, con una sceneggiatura attenta non solo a descrivere fatti già noti, ma soprattutto a delineare i caratteri dei protagonisti, anche se in maniera a volte troppo marcata.
Così la Deborah Lipstadt della brava e poliedrica Rachel Weisz è graniticamente convinta delle sue opinioni, basate su un accurato lavoro storico, ma anche tanto furiosamente desiderosa di dare voce a quei sopravvissuti che parlano a nome di chi non ce l’ha fatta da non essere capace di vedere cosa è davvero utile alla stessa causa. A doverne frenare l’irruenza ribelle sono i suoi difensori Richard Rampton e Anthony Julius, con il primo a dover materialmente gestire in aula il processo e il secondo a capo del team legale incaricato di elaborare la strategia vincente e reperire le prove schiaccianti con cui convincere il giudice della mala fede del querelante.
Sia l’esperto Tom Wikinson che il giovane Andrew Scott sono eccellenti nel restituire la bonomia concentrata del vecchio leone da tribunale e l’algida sicurezza dell’avvocato abituato a non conoscere la sconfitta. Ma a giganteggiare è soprattutto Timothy Spall, a cui tocca interpretare David Irving, tratteggiando la figura di un antagonista saccente e borioso, ma anche abile affabulatore e cialtronesco imbonitore. Personaggi che, forse, denunciano una certa monocromaticità e il cui background non viene indagato, ma che svolgono il loro ruolo di servizio lasciando che sia la Storia a parlare attraverso di loro.
Prima che un film ben recitato e diligentemente diretto, Denial è innanzitutto un film utile su diversi livelli. Utile perché mostra come la verità non debba mai essere data per scontata, ma debba sempre essere supportata dalla fondatezza delle prove e la corretta lettura delle fonti. Utile perché insegna che non si può scendere a patti con la menzogna e concederle un comodo asilo politico in nome di una pigra acquiescenza. Utile perché, memore della lezione di Primo Levi, ci ripete “ricordate che questo è stato e non dimenticate”.
Ma utile anche perché sottolinea il possibile contrasto tra ciò che è vero e giusto e ciò che è utile e conveniente. È giusto, ad esempio, dare voce ai sopravvissuti, ma non è utile ai fini della causa. È, dunque, la verità storica qualcosa che può essere manipolata in un’aula di tribunale? E se a vincere fosse stato Irving, l’Olocausto avrebbe perso la sua patente di autenticità storica? Può un giudice sostituire uno storico? Dubbi che il film solleva lasciando allo spettatore il compito di trovare la risposta, perché fortunatamente la realtà ha scritto per questo film un happy ending conclusivo (celebrato in maniera troppo didascalica a dire il vero).
Denial è, infine, una lezione che si può facilmente estrapolare dal contesto specifico del negazionismo per mandarla a memoria in questi tempi, dove la possibilità di fare arrivare la propria voce ad una platea più ampia della propria cerchia di conoscenze è offerta con disarmante semplicità da quei megafoni onnipresenti che sono i social network. Il film di Mick Jackson e la storia di Deborah Lipstadt vengono a dirci che la libertà di parola è un bene troppo prezioso per insozzarlo con il fango di falsità militanti. Non si può lasciare, quindi, che ognuno possa dire la sua su un qualsiasi argomento, senza assumersi la responsabilità di dimostrare che si ha una qualche minima competenza su ciò di cui si sta parlando. E il modo migliore di difendere la libertà di parola è proprio ricordare che non tutte le parole hanno lo stesso valore, perché solo quelle che cercano la verità meritano di essere pronunciate.
Denial porta al cinema un piccolo pezzo di Storia, per ricordarci che la verità non può essere nascosta, ma va piuttosto sempre esibita.
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