
Pillole dalla Festa del Cinema di Roma 2023 – Parte I
Si sta svolgendo in questi giorni (dal 18 al 29 Ottobre) la diciottesima edizione della Festa del Cinema di Roma. Cinque le sezioni su cui si spalma la ricca offerta di quest’anno. Progressive riservata ai film in concorso da tutto il mondo. Freestyle contaminata da serie tv e documentari. Grand Public per le opere che intendono rivolgersi ad un pubblico più ampio. Best of 2023 intenzionata a volgere lo sguardo su quelle produzioni non ancora arrivate in sala da noi ma già apprezzate all’estero tra concorsi e festival. Special Screening per il sociale. Un totale di oltre cento titoli sparpagliati tra i tre schermi dell’Auditorium Parco della Musica e tante altre sale in giro per Roma.
Pur desiderandolo ardentemente, il vostro recensore di fiducia (si spera) comunque non ce la può fare a vederli tutti e tantomeno a recensirli in dettaglio. Di qualcuno la recensione ce la si fa a farla (esempio C’è ancora domani). Per non lasciarvi a bocca asciutta (e dare un senso al mio essere qui), di giorno in giorno proveremo a darvi commenti in pillole sui film visti. Nella speranza che magari qualcuna delle produzioni più meritevoli riesca ad arrivare anche in sala da noi e potervi dire “ve l’avevo detto”.

Fremont
Diretto dal regista anglo – iraniano Babak Jajali, coautore della sceneggiatura con Carolina Cavalli, Fremont segue la sua protagonista Donya (Anaita Wali Zada) nella difficile sfida di sfuggire all’isolamento in cui si è auto reclusa.
Arrivata nel piccolo paesino di Fremont negli Stati Uniti dopo essere scappata da Kabul dove lavorava come traduttrice per l’esercito americano, Donya si è chiusa in una routine di giornate sempre uguali. Il lavoro presso la fabbrica di biscotti della fortuna per un ristorante cinese. La cena in un locale afghano a guardare la stessa telenovela con il proprietario. La notte ad aspettare il sonno in un letto singolo. Una metafora della la sua incapacità di pensare ad un domani in cui non è più sola. La promozione fortuita a scrittrice dei messaggi sui biglietti nei biscotti sarà la molla che le permetterà di aprirsi verso un mondo diverso. Bigliettini spediti alla cieca alla ricerca di un qualcosa che non sa, ma che la sta aspettando come un treno che passa.
Girato in un bianco e nero spento che si fa specchio dell’assenza di colore nella vita di Donya, Fremont è un film che condivide molto con la sua protagonista. I pochi dialoghi (parte dei quali in afghano). L’assenza di eventi significativi. La ripetizione di momenti abulici. Gli sparuti attimi di diversità. Tutti episodi che restituiscono bene la monotonia della vita di Donya. Ma finiscono per rendere il film altrettanto monotono e spento, lento e noioso. Una lentezza che è forse necessaria per adeguarsi al ritmo della quotidianità della sua protagonista. Solo che così il film diventa una sfida con l’orologio dove vince chi va più piano. La vera sorpresa è trovare verso il finale un attore inatteso sulla cresta dell’onda per una serie tv rivelazione che dona, sia al film che alla vita futura di Donya, una speranza per il futuro.
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Per Donya, forse, l’ultimo treno non è ancora passato. Per Fremont purtroppo si.


The end we start from
Diretto dall’esordiente Mahalia Belo, al suo primo lungometraggio dopo alcuni episodi di serie tv, The end we start from è un progetto in cui il primo a credere è stato Benedict Cumberbatch. Così tanto da arrivare a comprare i diritti del romanzo di Megan Hunter da cui è tratto ancora prima che fosse pubblicato nel 2017. Affidare l’adattamento ad Alice Birch e ingaggiare Jodie Comer per il ruolo della protagonista sono stati i passi successivi per arrivare al film presentato in anteprima alla Festa del Cinema.
The end we start from ci trasporta in un futuro prossimo dove un diluvio di proporzioni letteralmente bibliche causa alluvioni e carestie nel Regno Unito. Conseguenza ne è la fuga dei sempre più rari superstiti in villaggi e centri di rifugio tra bande di predoni all’assalto delle poche risorse rimaste e persone che muoiono nella calca per accaparrarsi le razioni di cibo. In questo scenario post apocalittico si muove il personaggio interpretato da Jodie Comer che partorisce un bambino proprio nel giorno in cui inizia la fine del mondo. Proteggere una vita che cresce mentre tutto intorno la civiltà lentamente muore è la sfida che la protagonista dovrà affrontare.
Che il personaggio principale non abbia un nome, ma sia semplicemente indicata come la madre del bambino rende chiaro come The end we start from voglia farne una rappresentazione ideale. Un modello eroico di resilienza estrema alimentata dalla maternità. Una scelta dal gusto retorico talmente palese da diventare presto origine del difetto principale di questo film. Non importa quanto difficili saranno le prove da affrontare. La plot armor della madre sarà sicuramente più forte. Questa necessità finisce per far perdere interesse alla storia perché si vedono fin da subito i binari sui quali correrà e le stazioni presso cui farà sosta. Né in questo aiuta il cameo dello stesso Benedict Cumberbatch le cui parole sono quasi uno spoiler delle scelte che farà la protagonista.
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Un film, quindi, che spreca quanto di buono aveva costruito inizialmente quando l’attenzione è più sul come l’apocalisse trasformi un poco alla volta le persone. Invece, The end we start from annega in una alluvione di banalità che ne fanno un prodotto senza infamia e senza lode.


Death is a problem for the living
Arriva dalla Finlandia la sorpresa di questi primi giorni alla Festa del Cinema di Roma. Cofinanziato per qualche misterioso motivo dalla Regione Emilia – Romagna, il film perde il suo più eloquente titolo originale Peluri ossia “il giocatore”. Ne acquista uno comunque adatto al tono della pellicola: Death is a problem for the living.
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Diretto da Teemu Nikki, il film racconta la strana amicizia tra Risto (Pekka Strang) e Arto (Jari Virman), vicini di casa che diventano colleghi nell’insolito business dei servizi funerari per attività criminali. Due personaggi profondamente diversi e, a loro modo, unici. Risto è, infatti, un giocatore d’azzardo senza scrupoli che accumula debiti a ripetizione e che non ha alcun problema a rubare soldi ai suoi stessi parenti ed amici. Arto, invece, è un omaccione buono e semplice la cui vita viene sconvolta dalla scoperta di essere letteralmente privo di cervello (a parte un 10% di tessuto cerebrale sul lobo occipitale). Finiranno per diventare inseparabili proprio perché ognuno dei due è più interessato alla loro amicizia che a voler cambiare l’altro.
Death is a problem for the living è un atipico buddy movie infarcito di black humour e cinica ironia. Un viaggio attraverso i segreti di Pulcinella delle famiglie, l’ipocrisia della società cosiddetta civile, il marciume asettico di una criminalità affarista. Ma anche un film che non si preoccupa di portare scena un personaggio come Risto che è ben consapevole di quanto spregevoli siano le sue azioni, ma che si è arreso da tempo alla propria incapacità di cambiare. Un condannato a peccare che ha accettato con pacata rassegnazione la pena provando anche a godersela se possibile.
Altrettanto intelligente è la scelta poi di accoppiargli quello che potrebbe essere visto quasi come un angelo. Un Arto talmente buono che è quasi impossibile non approfittarsene anche da parte di chi gli vuole bene. Ma che resta tenacemente uguale a sé stesso fino alla fine senza pretendere che i diavoli indossino una aureola per fargli piacere e continuare ad essergli amici. Proprio questo asimmetrico gioco di specchi rende Death is a problem for the living un titolo che non si può che augurarsi arrivi anche in Italia.


Kripton
Chiudiamo segnalando il documentario diretto da Francesco Mungi girato presso le strutture psichiatriche della capitale. Kripton da voce a quattro ragazzi che si sono auto reclusi in questi ospedali per curare diversi tipi di patologie mentali. La depressione cronica di Dimitri. Le allucinazioni di Georgiana. L’anoressia di Silvia. La paranoia di Marco. Ma ci sono anche squarci sulle vite di altri ospiti dei centri di igiene mentali con problemi meno evidenti, ma non per questo meno importanti. Soprattutto, Kripton da voce a chi questi problemi li vive quotidianamente. Medici con pochi mezzi che non siano la propria buona volontà in un settore che subisce tagli in continuazione. Genitori che devono affrontare le paure del domani e le stanchezze dell’oggi. Fratelli e sorelle che sopportano le conseguenze della malattia chiedendosi se non avessero potuto accorgersene prima e se questo avrebbe cambiato le cose.
Un mondo a cui non si guarda mai, ma che esiste e cresce sempre più nonostante lo stigma sociale che si aggiunge come ulteriore fardello per chi ne fa parte senza averlo chiesto. Sperando che gli applausi convinti dedicati dal pubblico ai ragazzi presenti di persona in sala non sia solo un atto dovuto per lavarsi la coscienza, ma un piccolo passo verso una maggiore empatia.