Cast principale: Matt Dillon, Bruno Ganz, Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogah, Sofia Grabol, Riley Keough
Non è un cinema semplice quello di Lars von Trier. A tratti, anzi, può risultare persino respingente. Come non è facile il personaggio del regista danese con la sua sincerità politicamente scorretta e le sue prese di posizione ampiamente criticabili. E con le sue uscite poco felici che spesso lo hanno portato al centro di clamorosi casi mediatici come l’espulsione da Cannes come persona non gradita per una frase equivocamente giustificazionista nei confronti del nazismo. Ma è comunque uno dei pochi registi capaci di creare una scuola e di non lasciare indifferenti. Pregi e difetti che vanno a condensarsi in quella summa che è questo La Casa di Jack.
La casa di un serial killer
A quattro anni da Nymphomaniac – Volume 2 (e dalle relative accuse di aver girato un film al limite del pornografico), von Trier torna in sala con un horror atipico che è più un lungo monologo della memoria che una storia lineare. Protagonista de La Casa di Jack è, infatti, il serial killer omonimo che ripercorre cinque incidenti (come li chiama lui) che ritiene snodi importanti per spiegare il suo modus vivendi. Un racconto a posteriori che è un modo di mostrare al suo interlocutore (fuori campo per quasi tutto il film) e allo spettatore ipnotizzato la sua filosofia dell’omicidio come mezzo per raggiungere il fine superiore dell’arte.
Il Jack di Matt Dillon (che con bravura si carica l’intero film sulle spalle) è sotto molti punti di vista un ben amalgamato miscuglio dei tanti serial killer che hanno popolato sia la cronaca nera che cinema e serie TV. Ha l’aspetto insospettabile ed innocuo dell’Ed Kemper visto di recente in Mindhunters. Le capacità ingannatrici del John Wayne Gacy che faceva il clown per beneficenza ed era un rispettato membro della comunità sociale. Il fascino magnetico del Ted Bundy che animava le feste a cui partecipava senza avere problemi a sedurre ragazze. E di tutti ha la stessa spietata ferocia che gli permette di uccidere donne e bambini da accatastare in una cella frigorifera in attesa di poterli usare quando serve.
A differenziare Jack dai suoi colleghi criminali è, però, il suo tendere costantemente ad una meta superiore per raggiungere la quale gli omicidi sono solo un mezzo necessario e non un bisogno intimo. Perché Jack non uccide per onanistico piacere, ma perché deve creare un’opera d’arte. Jack non vuole limitarsi ad essere un ingegnere che realizza un progetto disegnato da altri. Ardentemente desidera essere l’architetto che quel progetto ha concepito. Non un operaio che da la morte, ma un artista che crea una vita. E questa vita è l’arte che si esprima attraverso una casa da costruire su un terreno immacolato. O la luce oscura che filtra dai negativi delle foto delle vittime esposte in macabri quadri. Che sia l’eleganza di una icona o la perfezione geometrica di una composizione di cadaveri.
La casa di Jack è il racconto di un’ossessione prima che la storia di un serial killer. L’impossibile ricerca del materiale perfetto con cui costruire l’ideale che lascia dietro di sé solo una lunga scia di morte perché Jack non è e non sarà mai l’artista che avrebbe voluto essere.
Ma è davvero solo di Jack quella casa? La risposta neanche troppo velata è no. Perché La Casa di Jack è anche una confessione pubblica da parte di von Trier. Il Jack che rispetta in maniera compulsiva le regole che si è imposto non è forse una metafora esplicita del regista danese e della sua ossessione per Dogma 95? Il serial killer che ammira la potenza iconografica del rumore degli Stuka tedeschi e degli edifici di Albert Speer non è forse lo stesso autore che non hai negato la sua ammirazione per le opere dell’architetto preferito di Hitler?
Soprattutto, Jack è von Trier nel suo non aver paura di mostrarsi misogino, nel suo dipingere le donne come fastidiosamente petulanti o facili da ingannare o palesemente stupide. Convinzioni espresse dalla voce di Jack, ma pubblicamente sostenute a più riprese dallo stesso von Trier. Diventa difficile capire dove finisce Jack e dove inizia Lars. Quanto è pura finzione scenica per far risultare odioso il personaggio di Matt Dillon e quanto, invece, è frutto del modo di pensare di un autore che non si vergogna di essere inaccettabile.
La Casa di Jack è allora anche il modo in cui il regista gioca con la critica esaltando sé stesso e le sue opere (i cui spezzoni vengono inseriti nel film ogni volta in cui si parla di capolavori). Ma anche affidando al personaggio di Verge il ruolo impassibile del critico che nega le certezze dell’autore per mostrarne la vanesia illusione.
Accompagnandolo sul limitare di quel baratro nel cui profondo sta a lui non cadere.
La casa dello spettatore
La Casa di Jack è innanzitutto un film di von Trier. E questo significa aderire alle già citate regole del gruppo Dogma 95 (fondato proprio da von Trier e Thomas Vinterberg). Sebbene il movimento sia stato ufficialmente sciolto nel 2005 e fin dall’inizio le sue ferree regole sono state violate, è inevitabile che tracimino in questo film in maniera più o meno fedele al testo originario.
Niente effetti speciali. Niente luci. Niente colonna sonora. Niente scenografia. Niente artifici tecnici.La Casa di Jack non sposa completamente il nichilismo di questi divieti, ma sostituisce al niente il concetto di minimo possibile. Così le inquadrature (a volte volutamente instabili) sono per la maggior parte quelli della camera a spalla. Gli intermezzi musicali sono spezzoni di esibizioni di Glenn Gould utili a richiamare il concetto di arte come improvvisazione. Le luci sono naturali senza che la fotografia intervenga a dosarne i colori e modularne i toni. I cambi di scenografia sono affidati a cartelli retti dallo stesso Dillon in posa davanti al suo furgone.
Ne risulta un film esteticamente disomogeneo che fa di questa sua ricchezza di assenze una precisa scelta stilistica. Difficile da guardare, faticoso da accettare, stancante da seguire fino in fondo alle sue due ore e mezza di durata. Ma tremendamente sincero e ammirevolmente coerente con la visione del regista.
La Casa di Jack è un’opera a cui avrebbe reso maggiore giustizia una traduzione letterale del suo titolo originale. The House that Jack Built: la casa che Jack ha costruito. Un Jack che ha il volto di Matt Dillon, ma la mente di von Trier.
Vorrei vedere voi a viaggiare ogni giorno per almeno tre ore al giorno o a restare da soli causa impegni di lavoro ! Che altro puoi fare se non diventare un fan delle serie tv ? E chest' è !