La speranza è l’ultima a morire; finché c’è vita, c’è speranza; la speranza è la ricchezza dei poveri. Ma anche: chi di speranza vive, disperato muore; chi spera negli altri muore afflitto e disperato. Proverbi più o meno noti su quella che Foscolo chiamava ultima dea. E che Edoardo De Angelis evoca nel titolo della sua opera seconda presentata in anteprima alla Festa del Cinema di Roma. Perché Il vizio della speranza è intessuto di questo sentimento il cui valore solitamente salvifico o inaspettatamente dannato sostiene un film tanto duro quanto meritevole.
Se la speranza è un fiore puro, può crescere dove non c’è terra in cui piantarne il seme? Può la dea consolatrice che restò chiusa sul fondo del vaso di Pandora portare luce in un mondo dove gli unici colori sono il grigio di un cielo eternamente plumbeo e l’indistinto scolorirsi dei rifiuti ammassati in cataste disordinate? O è solo un vizio che bisogna togliersi al più presto perché cedere all’ammaliante bellezza di una guida ingannatrice non può che farti fare una brutta fine?
Tutto intorno a Maria, protagonista de Il vizio della speranza, sembra propendere per una risposta tragicamente affermativa a quest’ultima domanda retorica. Muovendosi con sicura monotonia su una barca minima che scivola costante su un fiume livido tra sponde marcescenti, Maria accompagna le prostitute rimaste incinte tra visite di controllo e baracche anonime dove partoriranno figli che non vedranno mai perché subito venduti ad altre donne che hanno il desiderio di essere madri ad ogni costo. A farle compagnia un pitbull fedele che lei chiama semplicemente Cane e che è in fondo l’unico vero affetto su cui può contare tra una sorella apatica, una madre incapace di amare che aspetta solo il sonno eterno, una madame altrettanto ricca di gioielli e cinismo che dirige il traffico di bambini dispensando insegnamenti corrotti da una vita criminale per dimenticare la quale deve farsi iniettare eroina dalla stessa Maria.
Continuando a muoversi nella Castel Volturno degradata che già esplorava nel suo primo lavoro, in Il vizio della speranza, De Angelis restituisce con un verismo da cinema neorealista il mondo degli ultimi che non hanno mai avuto la possibilità di conoscere il significato stesso della parola speranza. Ragazze dell’est che si rilassano tra un cliente e l’altro mangiando su divani scassati, appoggiati su terrazze fatte di discariche a cielo aperto. Nigeriane che festeggiano allegre tra musica e paillettes prima di tornare a sedersi sulle rive malate di un fiume che trasporta clienti e spazzatura. Spose che indossano l’abito bianco giusto per togliersi uno sfizio prima di morire per un tumore accettato con la naturalezza e il sorriso indifferente di chi ne ha passate così tante che ormai non fa più differenza.
Un universo plumbeo come il cielo sempre coperto di nuvole e pioggia che De Angelis mostra senza nasconderne la cruda realtà, ma pennellandolo con una mano tanto partecipe da potersi permettere scene non prive di una malinconica poesia.
E, tuttavia, Il vizio della speranzaè un film profondamente ottimista nonostante la crudezza delle scene, la tristezza apatica che attanaglia i protagonisti, la mancanza di un avvenire per chi in quelle terre desolate vive siano tutte prove più che evidenti di un pessimismo così scontato da farsi ovvio realismo. Ma ci sono anche quegli attimi di incostante bellezza, quegli sparuti barlumi di luce che improvvisi si accendono nel grigiore consunto che tutto ricopre. Che si tratti di una voce allegra che con inaspettata sicurezza afferma che non può esistere solo la miseria. Che sia il sorriso innocente di una ragazzina che appoggiandosi ad un bastone ti viene incontro perché sa trovare la felicità in un’ amica conosciuta per caso. Che sia l’orgogliosa indipendenza di un ex giostraio ingiustamente accusato di un crimine che mai avrebbe commesso. Che sia l’abbaiare fedele di un cane che diventa l’unico affetto sincero in un mondo dove gli umani hanno dimenticato il significato delle parole affetto e fedeltà.
Soprattutto, Il vizio della speranzaè una elegia delicata in onore del più ancestrale dei desideri di una donna: essere madre. Un vocabolo che diventa sinonimo di speranza perché chi perde la speranza perde anche il sentirsi madre. E perché madre non è solo chi mette al mondo un figlio, ma anche, e forse soprattutto, chi desidera esserlo. Non è un caso che coloro che mettono al mondo un figlio solo per poi darlo via siano condannate a restare bloccate in quel mondo di ultimi. Né che la ribellione di Maria si leghi alla volontà di non rinunciare ad un sogno che le avevano detto essere impossibile.
Impossibile come impossibile sarebbe vivere senza quel vizio maledetto eppure irrinunciabile che è la speranza.
Con Il vizio della speranza De Angelis realizza un’opera che per le tematiche trattate non poteva che essere al femminile. Ma porta questa scelta fino alle sue estreme conseguenze assegnando ad un cast composto quasi esclusivamente da attrici anche ruoli che solitamente sarebbero stati appannaggio di uomini. Capita così che tocchi a Marina Confalone abbandonare i suoi panni comici per indossare le vesti sovraccariche di Zia Maria che nasconde sotto la sua cinica efficienza un cuore che ha deciso di lasciare da parte ogni sentimento, ma che ancora è capace alla fine di insospettabili slanci di una magnanima umanità. Radicalmente opposta è invece la madre di Maria interpretata da una Cristina Donadio che si spoglia della sicurezza arrogante della Scianel di Gomorra per restituire una donna che aspetta una fine sempre troppo lontana e che è perciò incapace ormai anche di amare la sua stessa figlia che nonostante tutto non smette di tentare di salvarla.
È sicuramente Pina Turco, comunque, a giganteggiare ne Il vizio della speranza. La sua interpretazione di Maria è intensa e convinta, riuscendo a restituire con uguale sicurezza sia l’iniziale rassegnata sicurezza di chi svolge da tempo un lavoro che non ama, ma che non può lasciare, sia il nascere inatteso di una speranza impensabile che cambia completamente il destino di chi pensava di non averne uno. Una recitazione asciutta che non cede ad eccessi e che si lascia ammirare per la giusta modulazione dei diversi registri drammatici. Uguale plauso anche a Massimiliano Rossi che asciuga il linguaggio per mostrare con gli sguardi e i gesti più che le parole i sentimenti del suo Carlo Pengue.
Il vizio della speranza porta alla Festa del Cinema un film crudo su una umanità dolente e impaurita che è vittima anche di sé stessa. Perché la storia di Maria da ragione all’Andy Dufresne che, in Le ali della libertà, insegnava che la paura può farti prigioniero, la speranza può renderti libero.
Vorrei vedere voi a viaggiare ogni giorno per almeno tre ore al giorno o a restare da soli causa impegni di lavoro ! Che altro puoi fare se non diventare un fan delle serie tv ? E chest' è !