
Fargo: Recensione dell’episodio 2.01 – Waiting for Dutch
In principio fu Fargo, film del 1996 dei fratelli Cohen, vincitore del premio per la miglior regia a Cannes e di due oscar (miglior sceneggiatura e migliore attrice protagonista) e capace di guadagnarsi, dieci anni dopo, il prestigioso onore di essere conservato nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Poi venne Noah Hawley che, forte della benedizione dei due registi, riesce a realizzare una serie tv ispirata alle atmosfere e i luoghi del film per distillarne l’anima più intima e infonderla nella serialità televisiva. Successo di critica e pubblico garantito anche dalla presenza di attori del calibro di Billy Bob Thornton e Martin Freeman in gran spolvero e dalle sorprendenti performance di Allison Tolman e Colin Hanks. Il season finale poteva funzionare benissimo da series finale, data la natura antologica della creatura di Hawley ma gli alti rating e i lodevoli giudizi ricevuti sono stati inviti troppo ghiotti per poter rifiutare una seconda stagione ed eccoci quindi a questa season premiere.
Già altre volte si è fatto notare quanto rischioso sia confrontarsi con se stessi, perché inevitabile sarà giudicare una seconda stagione usando la prima come insindacabile metro di paragone. Se poi la prima aveva già fissato in alto l’asticella del giudizio, l’impresa potrebbe far tremare i proverbiali polsi. Fortuna vuole che Noah Hawley abbia il coraggio o l’incoscienza o forse entrambe le cose per affrontare con determinazione questa sfida e, anche se un solo episodio è troppo poco per avere certezze, l’impressione lasciata da questa premiere è che non è stata solo la fortuna ad aiutare questo audace tentativo. Perché Waiting for Dutch fa tesoro di pregi e virtù della prima esperienza riuscendo in più a cancellare quel fastidioso senso di girare a vuoto che aveva frenato la prima metà della passata stagione. Fiducioso che i suoi spettatori conoscano già le caratteristiche principali dei suoi personaggi, Hawley investe meno tempo a presentarceli caratterizzandoli in maniera chiara già dal primo episodio e permettendo così alla trama orizzontale di partire subito in quarta. Scelta anche un po’ obbligata dal momento che l’assenza di due figure forti come Martin Freeman e Billy Bob Thornton, che da soli erano in grado di reggere il peso della serie alleggerendone la lentezza con l’interesse che sapevano dare ai loro personaggi, costringe lo sceneggiatore newyorkese a caricare un fardello minore sulle insicure spalle di un maggior numero di protagonisti. Se, infatti, l’ambientazione è rimasta la stessa (con la presenza di Lou a fare da ideale collante con la prima stagione), quello che sembra essere nettamente cambiata è il modo di raccontare la storia. Non più due caratteri unici a rubare la scena al resto del cast, ma una maggiore coralità che sopperisce ad un cast indubbiamente meno ricco liberandolo dallo scomodo gioco dell’uno contro uno che sarebbe stato inevitabile riproponendo lo schema protagonista vs antagonista.
Un maggior numero di personaggi, ma tutti accomunati al Lester Nygaard dell’anno scorso dal loro essere persone ordinarie finite per un involontario caso in situazioni anormali. Ma anche unite tra loro dal desiderio di emergere dalla banalità del loro quotidiano in cerca di un domani più entusiasmante. Futuro che può essere anche poco affascinante come gestire in proprio una macelleria, ma comunque visto come una meta agognata a cui non rinunciare, sia quel che sia. Fosse anche nascondere nel freezer di casa il cadavere di uno sconosciuto investito fortuitamente ed ucciso poi per (non proprio) legittima difesa. Ed e Peggy Blomquist si candidano al ruolo che fu di Lester ossia l’ingenuo sempliciotto che dovrà scontrarsi con criminali ben più feroci di lui. Perché il corpo nel congelatore non è di un pedone insignificante, ma piuttosto è il figlio di una potente famiglia mafiosa di origine tedesca che si appresta a scendere in guerra contro un clan rivale. Eppure, se Ed sembra in effetti una versione riveduta di Lester, diverso è il rapporto con la moglie. Non più una megera irritante che non fa che denigrare il marito insicuro, ma piuttosto una adorabile compagna con cui fantasticare su progetti futuri da realizzare insieme. E tuttavia Peggy è anche di più con quel misto di sfrontata millanteria (“non te lo avevo detto che ho investito un cervo?”) e civettuola insensatezza (chi continuerebbe a guidare con un cadavere infilato nel parabrezza?). Ma anche una femminista ante litteram che non vuole figli perché aspira a qualcosa di più dell’essere solo la madre premurosa che aspetta bimbi e coniuge a casa.
Quel tempo è però ancora lontano perché questa stagione si svolge in quel 1979 che rappresenta una sorta di anno di transizione tra due diverse epoche della storia americana. Perché, esauritasi l’onda degli anni della contestazione e scioccata dalla tragica sconfitta subita in Vietnam, la generazione di quegli anni era come i protagonisti di questa stagione: desiderosa di un nuovo inizio che la conducesse verso un domani migliore, ma impantanata nelle sue insicurezze e paure (di cui parla il presidente Carter negli estratti di un suo famoso discorso). In attesa di qualcuno o qualcosa che le desse il via. Come le comparse sul set del finto film che aspettano Dutch. Quel Dutch che sarebbe diventato quel Ronald Reagan che avrebbe guidato gli Stati Uniti convincendoli della propria grandezza. Ma in Fargo Reagan è ancora a farsi attaccare le frecce dalla costumista e i nostri eroi dovranno fare da soli. Il come ce lo racconteranno i prossimi episodi.
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