
Oscar 2022: i candidati come miglior film
Inutile negarlo: conta la sceneggiatura, conta la recitazione, contano colonna sonora e fotografia. Ma, alla fine, al grande pubblico interessa solo una domanda: chi ha vinto l’Oscar come miglior film? Domanda la cui risposta, in verità, vale molto più in termini di marketing che di qualità intrinseca dell’opera. Troppi sono, infatti, gli addendi che vanno a sommarsi per definire il totale a cui guardano i membri dell’Academy quando danno il loro voto.
Non è, quindi, insolito che il vincitore del premio come miglior film non sia quello che ognuno avrebbe premiato secondo il suo personale giudizio. Che magari non c’è neanche tra i nominati.
Resta, però, innegabile che tutti correranno a vedere o rivedere il film vincitore dell’Oscar.
Tra quali titoli cadrà la scelta? Eccoli presentati di seguito in rigoroso ordine alfabetico.


Belfast
Diretto da Kenneth Branagh e girato in un luminoso bianco e nero, Belfast è animato dai ricordi del regista nordirlandese bambino negli anni in cui esplodeva il conflitto tra cattolici e protestanti nella fino ad allora pacifica capitale dell’Irlanda del Nord. Uno scontro visto dagli occhi espressivi del bravissimo Jude Hill, al suo esordio ad appena otto anni. Un ragazzino incapace di comprendere i perché di uno scontro che assume per lui le forme di un gioco tra adulti andato a finire male. Belfast è un omaggio alle proprie radici, ma è soprattutto un film fatto di emozioni come la prima cotta e l’affetto per i nonni onnipresenti, di ricordi sognanti come due genitori che danzano innamorati, di paure incomprensibili come il sermone di un prete che evoca l’inferno per i cattivi. Ma è anche una dichiarazione di amore per il cinema inteso come meraviglia che accende e rapisce gli occhi di un bambino che ancora non sa che in quel momento ha deciso cosa farà da grande.
Sette nomination per Belfast (film, regia, attore e attrice non protagonista, sceneggiatura, sonoro, canzone originale) sono già un successo tanto grande quanto meritato. Improbabile che la più prestigiosa si trasformi anche in premio, ma non sarebbe certamente una vittoria ingiusta.
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CODA – I segni del cuore
Hollywood guarda soprattutto dentro casa quando deve scegliere chi premiare. Ma non dimentica mai di salire in terrazzo per guardare cosa accade intorno pescando nelle fila del cinema cosiddetto indipendente. Da lì viene CODA – I segni del cuore, vincitore al Sundance Festival e successivamente acquistato e distribuito da Apple Tv+ ( Ora disponibile anche su Now TV e Sky). Una promozione che è stato l’inizio di una cavalcata che si è fatta sempre più impetuosa racimolando un numero notevole di premi importanti.
Miglior cast agli Screen Actors Guild (SAG) Award. Migliore attore non protagonista (Troy Kotsur) ai SAG e ai BAFTA. Migliore sceneggiatura non originale ai BAFTA e ai WGA (l’associazione degli sceneggiatori). Film dell’anno secondo l’American Film Institute. Un crescendo che potrebbe concludersi con l’Oscar? Difficile, ma decisamente non impossibile.
Perché la storia gentile della liceale Ruby, unica non sorda in una famiglia di non udenti (interpretata da attori realmente sordi), è il racconto delicato di una ragazza di fronte a un bivio reso più difficile dalla sua particolarità. Un film che parla di disabilità presentandola non tanto come un fardello per chi ne soffre, ma come una responsabilità per chi non ce l’ha. Seguire le proprie passioni per disegnare il suo futuro o rinunciarvi per l’amore verso chi ha bisogno di te?
CODA (acronimo di Children of Deaf Adults) affronta questo dilemma alternando i toni del teen drama romantico (grazie alla giovane età della protagonista Emilia Jones, già vista nella serie Locke & Key) con quelli della commedia degli equivoci grazie alla verve di Troy Kotsur capace di esprimere con i gesti più sentimenti di chi può usare la voce.
Un film che consacrerà probabilmente Troy Kotsur come migliore attore non protagonista rappresentando così la sua partner nel film, quella Marlee Matlin che è la prima attrice non udente a vincere un Oscar.

Don’t look up
Un cast all star: Leonardo Di Caprio, Jennifer Lawrence, Meryl Streep, Jonah Hill, Cate Blanchett, Timothée Chalamet, Ariana Grande. Una satira pungente scritta e diretta da un Adam McKay pronto a mettere alla berlina giornalisti, politici, manager guru, scienziati da talk show, complottisti da social media. La longa manus di Netflix a rendere possibile tutto ciò e a supportare world wide il film. Eppure, era difficile prevedere che Don’t look up sarebbe arrivato fino a contendersi la statuetta come miglior film.
Scelta meritata o eccessiva?
Di certo, una scelta arrivata al momento giusto perché i due anni di pandemia da cui stiamo faticosamente uscendo (si spera) hanno offerto al regista americano un materiale introvabile. O, meglio, è stata l’intera società ad offrirglielo rendendo paradossalmente credibile la storia di due astronomi che devono convincere i politici, in primis, ma anche il resto del mondo che una cometa che sta arrivando per distruggere la Terra è una tragedia estrema e non una opportunità da cogliere al volo.
Don’t look up dovrebbe essere una parodia feroce, ma finisce per assomigliare quasi ad una docufiction perché tutto ciò che capita al professor Randall Mindy e alla sua dottoranda Kate Dibiasky è terribilmente realistico. Politici interessati solo a capire quale scelta porti più consenso elettorale. Giornalisti in cerca del prossimo fenomeno da audience. Social media attenti solo a inventare il meme più divertente. Manager che si atteggiano a guru per nascondere l’ovvietà dei loro interessi meramente economici. Cantanti che sposano la causa che fa vendere più dischi. Negazionisti pronti a elaborare astruse e indimostrabili teorie del complotto per negare anche l’evidenza più lampante.
Don’t look up viene a dirci che, forse, una cometa servirebbe davvero perché estinguersi è la cosa migliore che ci si deve augurare. Troppo vero e troppo triste per vincere un Oscar.
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Drive my car
Che sia il nuovo Parasite? Spontaneo chiederselo vedendo che, come già successo per il capolavoro di Bong Joon – ho, anche Drive my car è candidato contemporaneamente come miglior film e miglior film internazionale. E anche il film di Ryusuke Hamaguchi viene dall’estremo oriente (Giappone invece che Corea del Sud). Ma, per il resto, i due film non potrebbero essere più diversi. Ai temi sociali che formavano l’ordito su cui era tessuta la trama di Parasite, il regista giapponese sostituisce una storia intima che vive dei dialoghi tra i due protagonisti. I continui campo e contro campo sui volti di Hidetoshi Nishijima e Toko Miura sottolineano come il film voglia essere il racconto di quel che i due protagonisti dovranno scoprire di sé stesso prima ancora che dell’altro. Un film lungo e denso di parole che scavano nel passato per dare al presente l’opportunità di guardare al futuro.
La storia di un regista teatrale in crisi e dell’autista che le viene assegnata contro la sua volontà si svolge nella Saab 900 Turbo rossa del primo in cui lo spettatore è invitato a sedersi silenziosamente. Ascoltare ed imparare come la vita dipenda dalle scelte di un attimo e come queste debbano essere accettate anche quando le conseguenze non sono state quelle che speravamo. Materiale da Oscar?


Dune
Non era tanto facile pronosticarlo. Anche perché, al momento dell’uscita in sala, si era trattato di una scommessa: girare la prima parte di una storia senza sapere se la seconda sarebbe mai arrivata. Invece, il successo al botteghino ha arriso a Dune consentendo così a Denis Villeneuve di mettere in cantiera il secondo capitolo di questo dittico ispirato al romanzo cult di Frank Herbert. Merito della potenza visiva del cinema di Villeneuve che realizza una epopea affascinante sorretta da effetti speciali convincenti. Nel farlo, il regista francese non rinuncia a tenersi fedele alle tematiche dell’opera originaria per quanto questa sia lontana dai canoni della fantascienza spettacolare tipica di tanti blockbuster sci – fi. Ne viene fuori un film che si concentra più sui personaggi e i loro dubbi che sulle scene di azione. Un film corposo che esige dallo spettatore una partecipazione convinta lasciandogli anche il compito di riempire gli spazi vuoti indagando da solo oltre quel che vede sullo schermo.
Una fatica ricompensata dalla grandiosità delle scene, dalla maestria della regia, dalla bravura degli attori, dal magnetismo della colonna sonora. Una somma di elementi più che buoni che ha trascinato il film fino ad una nomination dopotutto meritata. Ma per vincere ci vuole probabilmente qualcosa in più.
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King Richard – una famiglia vincente
I biopic hanno sempre affascinato Hollywood. Altrettanto le storie di perseveranza con il protagonista che realizza l’impensabile solo grazie alla forza di non arrendersi. Biopic più storia di riscatto più due dive dello sport. C’è tutto questo in King Richard – una famiglia vincente, dedicato alla storia di Richard Williams, padre di quelle Serena e Venus Williams che scriveranno il loro nome nell’albo d’oro di questo sport. Soprattutto a trainare il film diretto da Reinaldo Marcus Green è Will Smith che è anche produttore di quella che sembra essere un’opera realizzata con un preciso scopo. Consentire all’attore americano di vincere finalmente quel premio per migliore attore protagonista per il quale è stato già candidato due volte in passato. E che quest’anno molto probabilmente vincerà grazie all’interpretazione di un padre che riesce a concepire l’impossibile. Che due ragazzine di colore nipoti di emigrati nigeriani potessero non solo competere, ma addirittura primeggiare in uno sport usualmente considerato riservato all’elite bianca.
Armato di un piano sfrontato in settantotto pagine e di una inventiva fuori da ogni ortodossia, Richard riuscirà nel suo intento andando oltre i tanti no ricevuti e le difficoltà che avrebbero abbattuto chiunque. Per dimostrare che dietro due campionesse c’è un campione della volontà.


Il potere del cane
Inevitabile che ogni anno ci sia il film favorito per la vittoria. Quello che per il quale i bookmaker pagano la quota più bassa a chi ci scommette sopra perché troppo più alte sono le probabilità di portare a casa la statuetta. Inevitabile anche che sia il film che ha i maggior numero di candidature. E, quindi, inevitabile che questo ruolo tocchi stavolta a Il potere del cane. Il ritorno alla regia di Jane Campion riceve un numero di nomination pari agli anni tra questo film e il precedente Bright Star del 2009. Dodici candidature tra cui quelle in categorie di enorme peso: film, regia, attore protagonista (Benedict Cumberbatch), attore non protagonista (Jesse Plemons e Kodi Smit – McPhee), attrice non protagonista (Kirsten Dunst), sceneggiatura non originale. Un curriculum impreziosito anche dai tre Golden Globe vinti (film, regia e attore non protagonista per Kodi Smit – McPhee) e il Leone d’Argento al Festival di Venezia. Che sia questo il film che romperà la maledizione che ha finora impedito all’Oscar nella categoria più prestigiosa di arrivare in casa Netflix?
Per quanto Il potere del cane sia stato più amato dalla critica a stelle e strisce che da quella nostrana, è innegabile che la storia di mascolinità tossica messa in scena da Jane Campion adattando il romanzo omonimo di Thomas Savage abbia tutte le carte in regola per vincere l’ambito premio. La regista neozelandese mette in scena un western alla fine del western. Mostra la fine di un’era attraverso la figura di un cowboy che si costringe ad essere il campione di una mascolinità tossica che corrode prima di tutto il suo protagonista. Una storia fatta di relazioni sincere che vengono corrotte dal potere distruttivo di chi non vuole accettare di essere stato lasciato indietro dalla civiltà che è cambiata. Una solitudine a cui si condanna chi non riesce ad aprirsi all’altro da sé per paura che scopra la sua finzione.
Un film fatto di spazi aperti e animi chiusi pronto a ricevere il trionfo che probabilmente merita.


La fiera delle illusioni
Poi c’è anche il film che non ci si sarebbe aspettati di trovare tra i nominati. Non che Guillermo del Toro non sia un frequentatore abituale delle cerimonie dell’Academy avendo vinto per film e regia con La forma dell’acqua nel 2018. Solo che La fiera delle illusioni (Nightmare Alley in originale) non aveva entusiasmato particolarmente né chi scrive quest’articolo né buona parte della critica. La storia a tinte noir messa in scena dal regista messicano può affascinare per le scenografie e i costumi. Può colpire per la bravura di un cast che può vantare nomi come Bradley Cooper, Cate Blanchett e Rooney Mara. Intrigante è anche la rappresentazione del circo come luogo di illusioni che possono sia far sognare che spaventare. Tuttavia il film si dipana poi tra situazioni spesso poco credibili, scelte forzate e deliri non sempre comprensibili. Un percorso difficile da seguire con attenzione perché diventa presto sfiancante nella sua insistita ricerca di creare un’atmosfera più che narrare una storia.
La fiera delle illusioni finisce per apparire come il vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro di manzoniana memoria. C’è ma non sa bene neanche lui perché. Ma su un carro del genere è sempre meglio esserci.


Licorice Pizza
Proverbio vuole che tra due litiganti sia il terzo a godere. Se Il potere del cane è quello a fare la voce grossa e CODA il piccolo a contendergli l’osso, a chi potrebbe toccare il ruolo di terzo incomodo? A Belfast, possibilmente. Ma anche a Licorice Pizza, il nuovo film di Paul Thomas Anderson, candidato anche alla regia e la sceneggiatura originale. Ambientato nella San Fernando Valley degli anni Settanta – Ottanta, il film è un divertito omaggio ad un’epoca ricca di opportunità e vitalità. Proprio come il suo protagonista Gary Valentine (interpretato da Cooper Hoffman, figlio del compianto Philip Seymour) che corre incontro alla vita con l’intrepida incoscienza di chi non vede ostacoli, ma solo occasioni. Sogni da tramutare in realtà anche quando anche solo immaginarli sarebbe troppo. Una carica di entusiasmo così impetuosa da travolgere anche la timida Alana (che ha il volto della musicista Alana Haim) che si lascerà conquistare dalla carica vitale di Gary nonostante lei sia di dieci anni più grande.
Licorice Pizza è un film scintillante anche nel suo rapportarsi ad un mondo del cinema di quel periodo. Fatto di star ancora famose ma più per quello che hanno fatto che per quello che ancora possono dare. Di produttori dal glorioso passato e il presente ricco solo di aneddoti. Gente appena arrivata al successo che ancora non conosce cosa sia la misura perché ebbro di ciò che non aveva. Personaggi a cui Paul Thomas Anderson guarda con compiaciuta ironia, affettuosa compiacenza, sincera gratitudine. Quasi come a voler dire grazie ad un’epoca finita, ma a cui si deve la nuova generazione di autori a cui lui stesso appartiene.
Un film dove si corre molto per andare incontro alla vita. E forse anche verso un Oscar.
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West Side Story
Ultimo in ordine alfabetico, ma non necessariamente tale quanto a probabilità di vittoria (comunque molto basse). D’altra parte come potrebbe essere altrimenti per un film che nasce dall’incontro tra un musical iconico e un regista che è già nella storia del cinema? A settantasei anni Steven Spielberg si rimette dietro la macchina da presa per realizzare la sua versione di West Side Story, il musical di Arthur Laurents, Stephen Saunders e Leonard Bernstein. Molto liberamente ispirato al Romeo e Giulietta di Shakepeare, l’opera racconta l’amore impossibile tra Tony e Maria sullo sfondo delle lotte tra gangs di immigrati europei di seconda generazione e portoricani nella New York degli anni Cinquanta. Ansel Egort e Rachel Zegler prestano corpo e voce a Tony e Maria, ma a risaltare maggiormente è Ariana de Bose che si guadagna la candidatura a migliore attrice non protagonista.
Quasi superfluo dire che la mano di un regista tanto esperto ed abile come Spielberg è garanzia assoluta di scene visivamente perfette. La lunga esperienza ha caricato sulle spalle del veterano regista un bagaglio a cui mancava solo il musical per coprire l’intero arco dei generi cinematografici. Le lussureggianti scenografie e i meravigliosi costumi conferiscono ariosità alle perfette coreografie, mentre gli ambienti ricostruiti con certosina precisione dimostrano il rispetto doveroso verso l’opera originale nonostante gli aggiusti alla sceneggiatura necessari ad aggiornare il testo alla sensibilità moderna.
Un film che magari non vincerà, ma che merita certamente le sette nomination ricevute.