
Madre!: la recensione del film di Darren Aronofsky
Titolo: Madre! (Mother!)
Genere: thriller psicologico
Anno: 2017
Durata: 121’
Regia: Darren Aronofsky
Sceneggiatura: Darren Aronofsky
Cast principale: Jennifer Lawrence, Javier Bardem, Ed Harris, Michelle Pfeiffer, Domhnall Gleeson.
Darren Aronofsky è l’Indiana Jones del subconscio. Il suo cinema o si ama o si odia, perché è insieme meraviglioso e terribile. Non cerca i consensi e si prende gioco dei fischi. Quando ho visto Madre! mi sono sentito sballottato qua e là tra l’eccitazione e la nausea, come su un ottovolante, e sono rimasto sotto shock per ore. Il processo creativo non sarà più lo stesso.
Faccio una premessa, che è un po’ un salvavita per chi non ha voglia di perdere tempo: Madre! lo consiglio perché è un’opera d’arte vera, ma da guardare appunto con la disposizione d’animo di chi entra in un museo. Se lo guardate aspettandovi un film facile, verosimile, consolatorio e avvincente, c’è una fortissima possibilità che vi caschino i maroni dopo dieci minuti.
Perché Aronofsky ha preso l’asticella del Cinema e l’ha innalzata a qualcosa di più audace, sovversivo, crudo, vero e immaginifico, vitale e mortifero, intimista e universale, crudele e genuino. Questo film parla dell’arte, trasuda arte, è arte che parla di arte, come forse fanno un po’ tutti gli artisti che parlano di se stessi e della loro vocazione o condanna.
Madre! è un film monofocale, il punto di vista dell’opera combacia esattamente con la prospettiva della Lawrence e questa regola aurea è rispettata con grande scrupolo. La camera si appiccica addosso alla Lawrence (ottima), pedinandola, palpandola, vivisezionandola con primi piani ristrettissimi e asfissianti (quanto Hitchcock in quella crocchia di capelli dorati). Lo sfondo ci viene quasi sempre negato. Perché la regia ci risparmia lo sfondo? mi chiedevo in corso d’opera. O meglio: perché il soggetto non è mai inquadrato insieme alla casa, immerso e integrato nel suo ambiente? Perché la regia lo isola?
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La risposta è poco chiara almeno fino a tre quarti del racconto, quando una banale battuta fa emergere di sfuggita la chiave del metaforone che rappresenta l’impianto simbolico e narrativo di Madre!. Non c’è bisogno di inquadrare la Lawrence insieme al contesto, è superfluo, perché la Lawrence è il contesto, è la casa, è il soggetto e l’ambiente, la figura e lo sfondo, l’Io e il tutto. Perché la Lawrence personifica l’Arte, che non rispecchia mai solo se stessa ma è un prisma che introietta l’universo e poi lo proietta al di fuori illuminandolo di una nuova luce. E’ questa pietra che mi ha dato la forza di ripartire, sottolinea l’artista tormentato Bardem mentre impugna il suo talismano-feticcio.
Ma se voi solo sapeste cosa ci è voluto per estrarre questa pietra, quanta sofferenza, sacrifici, travagli. Ho dovuto amare, detestare, sedurre, abbandonare, riconquistare, ignorare, sminuire, proteggere, scopare, fecondare l’arte, ingravidare la Musa, ingravidare la madre delle idee. Quel giacimento fertile e appagante di gioie, stimoli, piaceri, ma anche uno scorbutico e geloso aguzzino, un crudele carceriere che mi ha imprigionato in questa sua gabbia dorata e non voleva più farmi uscire. E allora ho dovuto distruggerlo, sacrificarlo, scarnificarlo questo aguzzino, non prima però di averlo amato, fecondato e infine saccheggiato del suo bene più prezioso.
Bardem interpreta l’artista tormentato e seminebetito (ok, togliamo il semi) perché è così che si comporta l’artista di fronte all’arte, di fronte alla madre delle sue creature, di fronte a quel miracolo unico e bellissimo che è l’ispirazione. Con un misto di terrore e amore, rabbia e timore reverenziale, compiacimento e sottomissione, stupore e stupidità. Loro vogliono solo un po’ di attenzione, non sanno dove andare, bela come un lobotomizzato vitello Bardem alla Lawrence. Gli intrusi diventano invasori (bravi sia Harris che la Pfeiffer), le distrazioni tentazioni e così facendo usurpano i tuoi spazi, pretendono la tua attenzione, la tua concentrazione. Loro incoraggiano e alimentano la tendenza al caos di ogni mente creativa. E rompono i tuoi gioielli.
Il gioiello è lo stato di grazia, il dono che solo la Musa ispiratrice può donarti. Quel miracolo che solo consacrandosi completamente all’arte si può generare. Solo diventando un tutt’uno con quella gabbia dorata che l’arte ha amorevolmente e devotamente costruito per te. E che inizia a mostrare delle crepe, degli squarci nel pavimento, non appena tu la ignori e la trascuri. Non sedetevi sul lavello, strepita la Musa agli invasori molesti. Non rovinate la torre d’avorio che ho costruito con le mie mani per il mio principe, il mio profeta, il mio poeta. L’unico che può darmi una voce – la vita – e dentro la cui mente sono condannata a esistere.
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L’uomo che mi aiuterà a generare un figlio, un corpo di luce nelle tenebre, un concentrato di incontaminata chiarezza in mezzo al caos dell’entropia, mentre un branco di predatori affamati sgomita per rapirlo, cannibalizzarlo e inghiottirlo per sempre. Il figlio dell’arte allora (l’opera d’arte) si consuma, si contamina e sacrifica. Il miracolo si dimentica. Immolato senza scrupolo dall’artista stesso, padre biologico e legittimo, che però deve approfittare di uno stratagemma per strappare il figlio dalle braccia della madre e sacrificarlo all’altare delle vanità (in una scena a dir poco entusiasmante, meravigliosa e terribile). Che brividi quando lui urla “sono suo padre!” e lei risponde “e io sono sua madre!”, schiaffeggiandoci la coscienza per tutte le volte che abbiamo smesso di rispettare l’arte saccheggiandola senza ritegno (pensateci bene, d’ora in avanti, quando deciderete di sputtanarvi).
Il figlio è andato, smembrato, spolpato da chi ne vuole un pezzetto per nutrire la propria povertà spirituale con quel prodigio di ricchezza, nel tentativo disperato di riempire il proprio vuoto interiore. E in seguito si scaglia contro la madre, la musa, la aggredisce, la percuote, la insulta, la sminuisce e calunnia, spinto dall’invidia o forse semplicemente dall’incapacità di amare, di donarsi completamente a qualcosa senza pretendere per forza un tornaconto. L’arte non è una transazione. L’arte non è un compromesso. Sembra dirci questo fenomenale passaggio, nonché momento apicale di una delle sequenze più vibranti e sconvolgenti degli anni ’10, quella dell’assalto alla casa.
E allora l’Arte muore, dopo aver dato fuoco alla sua gabbia, al teatro psichico di cui era prigioniera e custode. E sparisce, si dissolve, si mummifica, ritorna un oggetto freddo e inanimato. O forse no, forse semplicemente si rigenera, partendo dal principio ancora una volta, in un nuovo viaggio doloroso e liberatorio, risorgendo dalle ceneri come un qualsiasi simbolo di perfezione e speranza. Ma non prima di aver lasciato in dono all’artista generoso, insicuro e, nonostante tutto, leale, il cuore della propria eterna e adamantina purezza.
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