
In the Flesh: recensione della miniserie
Un leggero scetticismo ha accompagno la mia preparazione alla visione del pilot di questa miniserie di BBC Three, In The Flesh. La questione fondamentalmente riguardava la mia stanchezza sul tema Zombie, The Walking Dead appena terminato aveva appagato la mia voglia di morti viventi, quindi ho deciso di vederlo così per una motivazione futile: sentire parlare un po’ di persone con l’accento del nord Inghilterra ma già dopo i primi dieci minuti mi sono accorta che avevo per le mani una serie splendida.
Nonostante sia cresciuta a cioccolata e serie televisive sono ancora un’ingenua, dovevo saperlo che la BBC avrebbe tirato fuori dal suo cappello ancora una volta una serie originale e soprattutto dalla chiara impronta europea, dove con eleganza e delicatezza si sfrutta una storia sovrannaturale per parlare di altri temi ben più importanti. Dovevo immaginarmelo che in tre episodi avrei esaurito tutte le mie lacrime, perché come sanno scavare nell’animo umano le serie britanniche nessuno è capace. Quindi questa oltre ad essere un’introduzione alla recensione è anche una premessa: la sottoscritta è letteralmente fuori di testa per questa miniserie, tanto che potrebbe non essere obiettiva e molto ordinata nella stesura, l’intento ultimo sarà di indurvi, se non lo avete fatto, a vedere subito questa serie.
In The Flesh ci catapulta al dopo- risveglio, qui non dobbiamo fare i conti con l’epidemia generata da un agente patogeno o da un’arma chimica, non sono spiegate le ragioni del risveglio il che rende subito il clima abbastanza inquietante perché in qualche modo ci indica la possibilità che ci sia un destino scritto da qualcuno di superiore.
Conosciamo il nostro protagonista Kieren, interpretato da un perfetto e dolcissimo Luke Newberry, in un centro di sicurezza a Norfolk; Kierien è un non-morto, uno dei tanti che si è risvegliato e ha iniziato ad aggredire e mangiare le persone, lui come molti altri e affetto da Partially Deceased Syndrome, sindrome del decesso parziale, i malati vengono tenuti sotto controllo e riportati a una parziale normalità grazie a un farmaco.
Molto toccante il momento in cui Rick apprende del suicidio di Kieren, come anche molto forte dal punto di vista emotivo è il cammino che fa Rick nell’accettazione di se stesso. Come abbiamo detto all’inizio la storia di Zombie è una scusa per parlare di temi sociali che ci toccano a tutti molto da vicino: l’accettazione di chi non rientra nei parametri della normalità dettata dalla società. Geniale oserei definire la scelta di mostrare come il più intollerante ai limiti della cattiveria cieca, proprio il vicario della cittadina, con un chiaro intento critico nei riguardi della religione e del fanatismo che ne deriva, questo prete fomenta le masse contro i “malati” di PDS ed è il più intransigente nel condannarli. La chiesa d’altro canto si è sempre impegnata frontalmente e con tutte le sue forze per stabilire chiaramente cosa sia giusto e cosa sia sbagliato, per stabilire chi sia normale e chi non lo sia. Questo è reso in modo eccellente in questa metafora del tutti contro gli zombie.
Abbiamo poi Bill, che costringe suo figlio a essere quello che non è, spingendolo a nascondersi a se stesso, emblematico e calzante la sottolineatura che viene fatta grazie all’inquadratura della camera di Rick, con le pareti piene di poster di donne nude, come a voler con tutte le proprie forze tranquillizzare il padre sulla sua apparenza alla tribù dei “normali”, stesso motivo che lo porta a non mostrarsi senza trucco e lenti. Eh sì perché per reinserirsi nella società, i malati di PSD hanno in dotazione un fondotinta e delle lenti: come a voler dire “sei quello che sei ma non farcelo vedere, potremmo non accettarlo” che è tutto sommato quello che esprime l’opinione pubblica quando si parla di temi scomodi.
Bill rifiuta che il figlio sia come Kieran malato di PSD, “diverso” e chiude gli occhi davanti a tutto arrivando a una scelta drastica convinto che la versione di suo figlio ritornata dall’Afganistan sia “difettosa”. E’ impossibile non metterlo a confronto con il padre di Kieran, uomo silenzioso e chiuso ma dalla profonda sensibilità che ama rivedere i film già visti perché gli infondono tranquillità, sa come andranno a finire non come la vita che riserva shock come quello che ha subito lui quando ha perso suo figlio morto suicida, con l’incubo costante di dover rivivere la perdita devastante.
Dovrei stare qui a elencare tutte le scene migliori e in tre episodi sono veramente tante, quindi v’invito veramente se non lo avete fatto a vedere subito In The Flesh, anche solo per avere una versione ancora diversa sui non-morti, qui più classica rispetto a quella più fumettistica di The Walking Dead in cui c’è uno schieramento tra buoni e mostri.
I mostri qui sono coloro che la società non accetta perché significherebbe interrogarsi e guardarsi allo specchio e questo spaventa sempre le persone. Accettare Kieren, giudicato troppo sensibile per questo mondo, significa accettare delle sfumature che la società fa fatica a metabolizzare.
Come via avevo anticipato quest’articolo, è dominato da flusso di coscienza quasi totale, a mia discolpa posso dire che questa serie ti prende alla pancia e al cuore ed è stato impossibile non farsi prendere anche durante la stesura di quest’articolo che spero serva al suo intento: farvi recuperare subito In The Flesh.
L’ho recuperata questa miniserie, perchè mi avevate consigliato di vederla, ed io da brava “alunna” ho provveduto a rimettermi in pari:-) Devo dire che, per quanto il finale sia tremendamente triste, ma anche giusto e verosimile, c’è qualcosa che mi è mancato. Non è quello che si vede in “in the flash” che non mi è piaciuto, anzi l’idea di parlare del post- apocalisse e non dell’apocalisse e sfruttare l’argomento zombie per trattare il tema dell’integrazione è veramente peculiare; ma è quello che non ho visto che non mi ha convinto: perchè solo tre episodi? Perchè non sei? Se la miniserie si fosse conclusa con la prima stagione cosa ne sarebbe stato di tutte le storyline parallele a quella del protagonista? Insomma ottima recitazione e scrittura, ma forse troppa foga nel voler trattare tante storie e tanti temi in un tempo troppo ristretto. Altra pecca secondo me è l’aver affibbiato il ruolo del “cattivo” alla chiesa, perchè avrei preferito parlare di integrazione a livello umano e non ritornare a delle categorie un po’ troppo stereotipate per i miei gusti, con questo, la BBC fa nuovamente centro e continua a stupirmi con serie che finiscono sempre per lasciarmi i lucciconi 🙂
@caterina sì, i tre episodi comunque sono “stretti” rispetto alle storyline intavolate. Nonostante ciò io ho un debole per questa serie, mi ha commosso varie volte, forse non avevo nessuna aspettativa quando l’ho iniziata, non so’… ma ricordo che rimasi sorpresa!! La scrittura delle serie britanniche così come la recitazione ha proprio questo in più rispetto a quella USA: suscita emozioni vere e a volte inaspettate!!
Io la avevo recuperata tempo fa dopo aver letto la recensione qui sopra quando ancora non ero parte dello staff e volevo capire se i recensori erano gente affidabile 😀 😀 😀
Scherzi a parte, mai consiglio fu più ben seguito ! In effetti, tre episodi sono davvero pochi per le storie che mette in scena, ma sono sufficienti a sviluppare bene l’argomento che si vuole affrontare. Soprattutto l’ idea di partire dal “diverso perchè zombie” per arrivare al “diverso perchè rifiutato dagli altri” è tanto delicata quanto intelligente. Molte cose avrebbero meritato più spazio (come il differente approccio nei confronti della PDS da parte di Kieren e Amy o il senso di colpa della sorella), ma tutti gli argomenti sono trattati con grande sensibilità (memorabile in questo senso il rapporto con il padre). La scelta di assegnare alla chiesa il ruolo del catttivo è in effetti un po’ semplicistica, ma in fondo è coerente con l’ambientazione in uno sperduto paesino dove appunto il pastore è una figura di riferimento (e poco importa che sia cattolico o anglicano o buddista). D’altra parte, gli autori secondo me speravano nel rinnovo, ma non ne erano convinti (in fondo, l’idea di una serie con zombie che non fanno gli zombie era rischiosa) per cui hanno chiuso la storia principale lasciando aperta qualche altra linea da poter seguire in caso di rinnovo. Rinnovo che è arrivato per cui non vedo l’ ora di godermi questa seconda stagione !
Io la avevo recuperata tempo fa dopo aver letto la recensione qui sopra quando ancora non ero parte dello staff e volevo capire se i recensori erano gente affidabile 😀 😀 😀
Scherzi a parte, mai consiglio fu più ben seguito ! In effetti, tre episodi sono davvero pochi per le storie che mette in scena, ma sono sufficienti a sviluppare bene l’argomento che si vuole affrontare. Soprattutto l’ idea di partire dal “diverso perchè zombie” per arrivare al “diverso perchè rifiutato dagli altri” è tanto delicata quanto intelligente. Molte cose avrebbero meritato più spazio (come il differente approccio nei confronti della PDS da parte di Kieren e Amy o il senso di colpa della sorella), ma tutti gli argomenti sono trattati con grande sensibilità (memorabile in questo senso il rapporto con il padre). La scelta di assegnare alla chiesa il ruolo del catttivo è in effetti un po’ semplicistica, ma in fondo è coerente con l’ambientazione in uno sperduto paesino dove appunto il pastore è una figura di riferimento (e poco importa che sia cattolico o anglicano o buddista). D’altra parte, gli autori secondo me speravano nel rinnovo, ma non ne erano convinti (in fondo, l’idea di una serie con zombie che non fanno gli zombie era rischiosa) per cui hanno chiuso la storia principale lasciando aperta qualche altra linea da poter seguire in caso di rinnovo. Rinnovo che è arrivato per cui non vedo l’ ora di godermi questa seconda stagione !
P.S.: si, cmq, i recensori erano affidabili; poi mi sono aggiunto io e …. ai posteri l’ ardua sentenza 🙂