
Fear The Walking Dead: recensione episodio 1.05 – Cobalt
Indubbiamente la breve serialità fa bene ad un prodotto che purtroppo per lui ha un’unica situazione narrativa da portare avanti: zombie, zombie ovunque, zombie dappertutto. La prima stagione di The Walking Dead aveva lasciato tutti quanti a bocca aperta, anche perché, fattore da non tralasciare, era impostata su solo sei episodi. Lo stesso esperimento lo si è voluto ripetere con Fear The Walking Dead e, ad un episodio dalla fine, possiamo dire che l’esito è stato positivo, ma forse era lecito aspettarsi qualcosa di più. La serialità corta infatti aiuta gli autori ad evitare che la storia si sieda su sé stessa, come più volte avvenuto nelle stagioni poco fortunate di The Walkind Dead, alla prigione, per esempio, nella lotta al Governatore o contro l’epidemia. Un conto è trovare qualcosa di nuovo che faccia muovere i personaggi se hai sei puntate da scrivere; un altro conto quando le puntate sono il doppio e le idee buone le hai già usate.
Intendiamoci, Fear Walking Dead non è paragonabile al suo fratello più grande, nelle sue migliori stagioni. Ha una storia a scadenza, che il pubblico sa già come andrà a finire, e una serie di situazioni che sono già state utilizzate per The Walking Dead. In più, una volta introdotto l’elemento che cambia radicalmente l’universo dei personaggi, gli zombie, non ha molto tempo narrativo, diegetico, per portare avanti i propri discorsi. E questo è contemporaneamente un bene e un male; ti limita, è vero, ma, come dicevamo all’inizio, ti aiuta a non fossilizzarti su temi e questioni un po’ meno accattivanti per un pubblico che si aspetta da un momento all’altro vedere uno zombie uscire da dietro l’angolo e qualcuno fargli saltare la testa.
Peccato che in Fear The Walkind Dead gli zombie non si vedano, complicando tremendamente le cose per gli autori, che, dopo un paio di episodi centrali dove appunto l’attenzione stava scemando (anche forse per aver osato poco, come per esempio nella rivolta di massa che costringe Travis e famiglia a rifugiarsi nel negozio di Daniel), riescono finalmente a riportare l’adrenalina sui binari giusti. Lo schema alla base di Cobalt è fondato su una costruzione doppia: prima ti faccio vedere una situazione, poi te ne presento una uguale, ma allo stesso tempo diversa, un po’ come nella puntata precedente il riflesso di luce veniva giudicato con due tipologie di sguardi differenti: Douglas che va fuori di testa per le provocazioni dell’affabulatore, è una situazione ripresa poco più avanti quando sarà Ofelia ad andare in escandescenza per il sequestro della madre. Solo che il primo è una situazione totale d’abbandono della vita, il secondo uno stratagemma per attirare un militare della Guardia Nazionale in trappola.
Stesso discorso per il ricordo di Daniel del regime militare di El Salvador: il barbiere ci viene presentato come una vittima della dittatura del piccolo Stato del centroamerica, salvo poi scoprire il suo vero ruolo di torturatore degli oppositori del Governo. Il segreto è alla base della bontà di Cobalt, che fin dall’inizio introduce un personaggio meschino, ma affascinante, che vende i compagni di cella in cambio di favori (chi è quest’uomo ? Quale ruolo avrà ? Come sfrutterà Nick ?); sono segrete le motivazioni che hanno portato la dottoressa Exner a chiedere a Liza di seguirla (per utilizzarla come “carne da macello” nel caso un morto si rianimi troppo in fretta, essendo il personale militare rimasto senza infermieri da sacrificare); è segreto il significato di “Cobalt”, che rappresenta l’evacuazione totale della Guardia Nazionale dalla città con la programmata repressione dei detenuti, ed è segreta anche la morte di Moyers, il tiranno Moyers, ucciso dagli zombie in una scena che ci viene celata, probabilmente l’ascoltiamo, l’intuiamo, ma ne troviamo certezza unicamente dal racconto dei commilitoni.
In seconda battuta, Cobalt riporta sullo schermo una tematica tanto cara a The Walking Dead: cosa sei disposto a fare
Proprio Travis è uno dei pochi personaggi che alla domanda tematica ancora non rispondono, in rappresentanza di quella parte della popolazione che non soffre della psicosi del complotto e si fida ciecamente dell’operato dei militari, in sostituzione del Governo. Il percorso che deve affrontare Travis è un percorso lento, di maturazione, per gradi, che ha subito un primo duro scossone assistendo alla sparatoria nella casa dove qualcuno cercava di attirare l’attenzione col riflesso della luce. Come Daniel, anche Travis, che in un certo senso è il suo opposto, si è fidato del despota al comando, riconoscendo in lui la guida da seguire senza farsi troppe domande, per il bene dei propri congiunti.
Come a El Salvador, ora il despota è stato smascherato ed è caduto, portando la caratterizzazione di Travis, tuttavia, a sbattere contro una cantonata, pari a quella presa dal personaggio. Dopo aver infatti visto crollare le poche
Un lord, alla fine dei conti, al quale il destino porge sibillinamente un primo preavviso: se vuoi sopravvivere (e far sopravvivere la tua famiglia), devi imbracciare un fucile e premere il grilletto (o un qualsiasi altro tipo di arma, anche improvvisata). In tutto questo, forse, il personaggio è un po’ troppo schiavo della sua caratterizzazione di partenza, del professore che insegna lettere, convinto di riuscire, attraverso la cultura, a portare un cambiamento all’interno di un quartiere e di una scuola con numerose situazioni disagiate e studenti problematici, costretto a non mostrare al di fuori di sé la propria rabbia, poiché sinonimo di insicurezza. In una serie dove tutto deve necessariamente andare più veloce, lui è più lento.
Chi invece naviga in completa assenza di sicurezza (e di certezze), sono Alicia e Chris, che scappano di casa per trovare rifugio nella più classica scena apocalittica, con i benestanti che, credendosi poveri, quando trovano la casa di un ricco da trasformare in un parco giochi, lo fanno senza battere ciglio, rompendo il maggior numero di oggetti possibili, indossando vestiti che mai potrebbero permettersi e dando sfogo ad una sorta di rivoluzione economica (sai la novità….).
Per Fear The Walking Dead arriva ora lo scoglio più difficile da superare. La conclusione della narrazione di cui già si conoscono le conseguenze. E qui ritorna il problema di una serie che poco ha osato e come risultato poco ha lasciato nello spettatore, con personaggi ben caratterizzati, ma poco affascinanti. In The Walking Dead, dove ci è stato mostrato che chiunque può morire all’interno della narrazione, ci sono comunque personaggi più “protetti” rispetto ad altri, la cui dipartita dalla narrazione colpisce lo spettatore: è successo per Lori, per Dale, per Hershel, per Carol, per Beth, per Lizzie e Mika. Fear
The Walking Dead, invece, in questo senso sconta un po’ il piattume della propria narrazione. Il compitino è stato portato a casa, ma si poteva decisamente fare di più. Per farla meno tragica, se in conclusione di sesto episodio dovessero morire
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A me invece continua a comunicare molto questo show. Descrive molto bene il rapido crollo della razza umana, la fine delle istituzioni che viene subito sostituita dall’imbarbarimento e dall’ognuno pensi a se stesso. In alcuni punti è angosciante e duro, la descrizione dei personaggi è approfondita e non si riduce a macchiette, ognuno ha una sua funzione e la svolge egregiamente… Ho provato profonda angoscia in questo episodio e quando uno show ci riesce per me è tanta roba.
Un appunto, non penso proprio che alla fine dei primi sei episodi di TWD fossimo così affezionati ai personaggi.. sinceramente delle 4/5 persone morte nel gruppetto nella prima stagione non ricordo nemmeno i nomi e, a memoria, alla fine di quella stagione avevo presente chi fossero Rick, sua moglie, Shane e il “tizio coreano” .. fine, quindi non diamo meriti a TWD che secondo me non ha…
P.S. qui i dialoghi sono metri sopra come livello di scrittura…
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