
7 Minuti: la recensione del nuovo film di Michele Placido a RFF11
Titolo: 7 Minuti
Genere: drammatico
Anno: 2016
Regia: Michele Placido
Sceneggiatura: Stefano Massini, Michele Placido, Toni Trupia
Cast: Ottavia Piccolo, Fiorella Mannoia, Cristiana Capotondi, Ambra Angiolini, Clemence Posey, Violante Placido, Maria Nazionale, Michele Placido
“El pueblo unido jamas sera vencido” cantavano gli Inti Illimani nel lontano 1974, per incitare il popolo cileno alla ribellione contro la sanguinosa dittatura di Pinochet. Cavalcando il clima di contestazione di quegli anni, l’appassionata canzone del gruppo cileno divenne anche un inno della sinistra combattente, da intonare con fierezza in uno dei tanti conflitti sindacali estremi di quegli anni. Le sonorità indie di quelle note andarono a comporre la colonna sonora di quelle contestazioni, aggiungendosi al ritmo cadenzato che accompagnava le parole infuocate di Contessa, scritta nel 1966 da Pierangelo Bertoli, che annunciava ad una ipotetica aristocratica che “le idee di rivolta non sono mai morte, se c’è chi lo afferma non state a sentire, è uno che vuole soltanto tradire”.
Testi militanti e suoni combattenti adatti a quegli anni infuocati. Ma, escludendo il comprensibile afflato nostalgico di ex militanti, come sarebbero accolte oggi? Come cori fuori tempo massimo? E le idee di cui sono pervase quelle canzoni come sarebbero considerate? Come residuati anacronistici slegati dai tempi che viviamo? Placido ha vissuto il Sessantotto, anche se dalla parte di quei poliziotti difesi da Pasolini, partecipando anche alla Battaglia di Valle Giulia, dove le forze dell’ordine si scontrarono con gli studenti che occupavano la facoltà di Architettura dell’Università di Roma. Dovrebbe, quindi, ricordare molto bene i discorsi e le idee di quegli anni irrequieti. E altrettanto bene dovrebbe sapere che le stesse parole, riproposte cinquant’anni dopo, perdono la loro carica sincera per diventare mestierante retorica.
Incurante di questo rischio, invece, il regista pugliese decide ugualmente di portare sul grande schermo un testo teatrale, scritto da Stefano Massini (qui presente come sceneggiatore), ispirato all’aspro conflitto tra le operaie di una fabbrica tessile di Yssingeaux e il nuovo management aziendale. Spostando l’ambientazione dalla Francia all’Italia, Placido e Massini raccontano l’aspra diatriba interna al consiglio di fabbrica chiamato a decidere se la richiesta di accorciare di 7 minuti (da cui il titolo) la pausa tra un turno e l’altro in cambio del mantenimento del posto di lavoro e delle stesse condizioni salariali sia accettabile o meno.
Le diverse anime che compongono il gruppo emergeranno prepotentemente portando allo scontro tra gli opposti schieramenti portatori di istanze e storie differenti. Sette minuti possono apparire una inezia, ma un semplice conto algebrico mostra che accettare quella apparentemente innocua richiesta significa concedere 900 ore lavorative complessive al mese all’azienda, che avrebbe quindi un’accresciuta forza lavoro effettiva senza bisogno di assumere ulteriore personale.
È giusto regalare questo vantaggio alla direzione rinunciando a un minimo diritto pur di salvaguardare il bene superiore dello stipendio certo a fine mese? O quella inezia è invece una breccia aperta da cui sarà poi possibile per un avversario infido e astuto entrare e fare danni più grandi e irreparabili? Non è un atto apprezzabile di sincera onestà lasciare a chi non ha mai avuto niente la possibilità di conservare quel minimo che ha finalmente faticosamente ottenuto permettendogli di coltivare la speranza, fosse anche illusoria, di un domani migliore? O non è forse moralmente più corretto non limitarsi al qui ed ora e sfidare la paura delle conseguenze presenti per impedire che a quarant’anni da adesso altri debbano decidere se rinunciare a diritti ancora più grandi? È ancora vero che el pueblo unido jamas sera vencido e che le idee di rivolta non sono mai morte? O è tutto finito perché l’imperativo di una paura mai conosciuta è solo salvarsi prima e chiedersi solo dopo cosa si è dovuto lasciare indietro?
Eppure il film assomiglia al tema furbo di uno scolaro, che si illude di poter portare a casa la sufficienza e qualcosa in più mettendoci di tutto di più che non si sa mai cosa vuole la prof. Allo stesso modo, Placido e Massini infarciscono il loro film di una serie di figure pescate da un’indagine sociologica sul mondo del lavoro. Così abbiamo le operaie Bianca (Ottavia Piccolo già presente nella versione teatrale) e Ornella (una sorprendentemente coatta Fiorella Mannoia) che ricordano i tempi belli di una volta quando le pause duravano trenta minuti e si era un corpo un’anima; la madre di famiglia Angela (la fin troppo urlante Maria Nazionale) con quattro figli e il marito in cassa integrazione che se frega dei massimi sistemi e vuole solo fare presto che alla fine basta che la pagano e chissene di tutto il resto; l’immigrata bonacciona Kidal (Balkissa Maiga) in fuga dalla fame in Africa con tante belle storielle educative da raccontare; le ragazze dell’est Micaela (Sabine Timoteo) e Hira (Clemence Posey) che accettano di tutto perché il poco che stanno ottenendo è infinitamente di più del nulla delle loro amiche che non ce l’hanno fatta e questo cedere non è perdere alcuna dignità; la borgatara incazzata Greta (una inedita Ambra Angiolini) piena di rabbia esplosiva e razzismo latente; l’anonima Sandra (Luisa Cattaneo) pronta a sospettare di tutto e tutti se qualcosa si mette contro quello che crede sia il suo utile; le inesperte Isabella (Cristiana Capotondi) e Alice (Erika D’Ambrosio) che hanno troppi pochi anni sulle spalle per poter avere una idea chiara della situazione ma tanta voglia di imparare e prendere il testimone in una ideale staffetta dei diritti e doveri; la paraplegica Marianna (Violante Placido) che ha ceduto una volta per convenienza ed ora dubita di sé stessa.
Figure talmente archetipiche che ogni loro discorso, ogni loro scelta, ogni loro azione, ogni attimo che occupano la scena sono prevedibili e scontati. Né aiuta che spesso espongano le loro idee, frutto di un copia e incolla dai manuali del buon sindacalista, guardando fisso in camera come stessero rispondendo alle domande di una inviata di un programma di inchiesta e non recitando in un film dove dovrebbero apparire naturali e non impostate.
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