
Gli Zombie tra cinema e serie tv
Walking Dead non si guarda con la testa. Ci sono spinte più profonde. Il cuore ha ragioni che la ragione ignora. Walking Dead si guarda perché ci stanno gli zombie. E gli zombie si guardano sempre, punto.
Zerocalcare (alias del fumettista romano Michele Rech) non si occupa di serie tv in maniera professionale e neanche ha una opinione lusinghiera di “The Walking Dead”. Ma il suo commento riportato sopra sintetizza al meglio il perché del successo di ogni prodotto televisivo o cinematografico che abbia anche lontanamente a che fare con gli zombie. Perché poco importa la versione (e ce ne sono molte come vedremo) dei morti viventi che va in scena. Quel che conta è che ci sia qualcosa che si possa far risalire a quel mito per guadagnarsi la sicura attenzione di un consistente numero di appassionati.
Forse, la ragione nascosta di questo atteggiamento quasi fideistico sta nella storia stessa del mito degli zombie. Se, infatti, vampiri e altri protagonisti classici del genere horror possono vantare natali letterari (con opere che spesso risalgono al Romanticismo ottocentesco), i morti viventi devono la loro fortuna proprio al successo che i primi film sull’argomento hanno avuto. È stata questa spinta a trasformare un quasi marginale elemento del folklore haitiano in un mito mondiale.
L’origine degli zombie: Romero
Sebbene le origini del mito del morto vivente possono essere fatte risalire al voodoo e al suo inquietante rapporto con il mondo dell’aldilà, è sicuramente merito di George Romero e del suo “La notte dei morti viventi” del 1968 se gli zombie sono riusciti ad attraversare i ristretti confini dell’isola centro americana.
Eppure, ad ispirare Romero non era stato il mito voodoo e neanche poteva aver letto “Il Serpente e l’Arcobaleno” (pubblicato solo nel 1986) in cui l’antropologo Wade Davis esaminava con prove scientifiche il caso di Clairvius Narcisse ritenuto a lungo un vero e proprio morto vivente. Piuttosto, era stato “Io sono leggenda” di Richard Matheson (dove però i mostri che assediano il protagonista Neville sono vampiri) a fargli balenare l’idea di un mondo apocalittico dove i vivi terrorizzati sono assediati da fameliche orde di zombie cannibali.
Il film di Romero traccerà l’iconografia definitiva dei morti viventi dipingendoli come cadaveri variamente putrefatti che deambulano lentamente senza meta in cerca di sopravvissuti da sbranare o in attesa di qualche mano pietosa che li uccida colpendoli alla testa. “La notte dei morti viventi” è soprattutto una feroce critica contro la società statunitense degli anni Sessanta, la guerra del Vietnam e il razzismo che allora imperava negli USA (e non a caso il protagonista è di colore), ma è anche innovativo per l’uso di macabri effetti speciali che lo rendono un precursore dello splatter e per alcune innovative scelte di sceneggiatura (come il far prendere le decisioni giuste sempre al personaggio più odioso e terminare con la morte del protagonista per mano di quelli che dovrebbero essere i salvatori). Paradossalmente, tuttavia, il capolavoro di Romero resterà negli annali del cinema per aver creato quasi ex novo la figura dello zombie inaugurando un genere che sarebbe stato più che prolifico.
Basterebbe uno sguardo alla lista (lunghissima ma nondimeno incompleta) di film che hanno a che fare con i morti viventi riportata da Wikipedia o una ricerca su IMDb per rendersi conto della progenie di cui il film di Romero è il capostipite. Una discendenza tanto numerosa da obbligarci ad una severissima cernita che privilegi non la qualità (che a volte è figlia dell’insindacabile gradimento di chi guarda), ma l’importanza che hanno avuto nello sviluppo di un genere ormai consolidato.


28 giorni dopo: gli zombie con una marcia in più
Perché gli zombie non sono sempre stati quegli esseri spaventosi, ma dopotutto controllabili se presi singolarmente. Riflettendoci a mente fredda, uno zombie è piuttosto debole, lento, privo di qualsiasi intelligenza, facile da uccidere. L’esatto contrario degli esseri forti e veloci, rabbiosi e resistenti che si vedono in “28 giorni dopo”, film del 2002 di Danny Boyle, dove un virus geneticamente modificato e diffuso per errore da un gruppo di animalisti ha infettato la popolazione trasformando le vittime in ferocissime bestie assetate di sangue. Sebbene tecnicamente gli zombie di Boyle non siano morti viventi (in quanto il virus causa la mutazione dell’infetto senza preventivamente ucciderlo), il film viene comunque considerato appartenente al genere che stiamo discutendo costringendoci a ridefinire il concetto stesso di zombie.
Cosa è infatti uno zombie? Secondo la tradizione classica, dovremmo considerarlo un essere tornato dalla morte ma incapace di ogni attività cosciente. Un essere umano resuscitato che stravolge il significato cristiano della resurrezione vista non più come un dono salvifico, ma una condanna atroce.
È, forse, anche questo uno dei motivi nascosti per cui gli zombie sono tanto affascinanti: perché vengono a dirci che la morte che tutti temiamo potrebbe anche non essere una fine da evitare, ma un eterno riposo da cui è meglio non svegliarsi. Una morte che è la fine di ogni pensare e quindi sfuggire ad essa non ha senso se tornare da quell’inesplorato reame significa rinunciare al proprio libero arbitrio in cambio di una obbedienza cieca a istinti primari animaleschi.
Da questo punto di vista, possono allora definirsi zombie anche le creature rabbiose del film di Boyle e con loro anche le sterminate orde di apocalittici infetti visti in World War Z con Brad Pitt. Questa ardita riscrittura del mito del morto vivente ha, inoltre, l’innegabile pregio di rivitalizzare un genere che rischiava di estinguersi nella noia di uno splatter ripetitivo, mentre i nuovi zombie di Boyle e di World War Z permettono di aggiungere adrenalina all’azione rendendo più credibile la minaccia rappresentata da ogni singolo zombie e non più solo da orde innumerevoli.

The Walking Dead
L’adrenalina può essere un ingrediente sufficiente a tenere incollato lo spettatore alle due ore di un film, ma non alla più o meno lunga lista di episodi di una serie tv. È per questo motivo che gli zombie hanno impiegato tanto tempo a balzare dal grande al piccolo schermo.
Con un genere cinematografico tanto codificato (che si tratti degli zombie di Romero o di quelli di Boyle, ogni film zombesco segue comunque sempre uno schema standard) la scintilla necessaria ad accendere la fiamma del successo televisivo non poteva che venire da un medium diverso che di serialità è intessuto. Ed è infatti un fumetto ad ispirare quella che può essere considerata la prima serie tv sugli zombie.
Robert Kirkman l’autore del fumetto, Frank Darabont il regista che per primo ha l’idea di farne una serie tv. “The Walking Dead” il nome del fumetto e della serie. Una serie ormai tanto famosa che basta citarne il titolo per dire già tutto. Sebbene le scene iniziali dell’episodio pilota andato in onda il 31 Ottobre 2010 su AMC siano un esplicito omaggio a quelle di “28 giorni dopo”, gli zombie di “The Walking Dead” (qui ribattezzati “walkers”) sono quelli lenti e cadaverici di Romero e la serie appare inizialmente come un survivor movie con i protagonisti che devono scampare agli assalti dei morti viventi. Ma è subito chiaro che, in “The Walking Dead”, gli zombie perdono il ruolo di antagonisti che hanno sempre avuto (ma già nel film di Boyle i veri cattivi erano altri) per diventare il macabro fondale su cui far scorrere le drammatiche vicende dei sopravvissuti.
I protagonisti di “The Walking Dead”, infatti, devono confrontarsi non tanto con i walkers, ma con i ben più difficili quesiti che la sopravvivenza in un mondo dove non esistono più le regole sociali forzatamente pone. Fin dove è lecito spingersi per salvare i propri cari ? Quando è lecito uccidere i tuoi simili invece che gli zombie ? Quando smettiamo di poterci definire esseri umani ? Chi sono davvero i morti che camminano ? Domande con cui Rick Grimes e compagni devono scontrarsi e alle quali rispondono in modi sempre diversi e non sempre condivisibili dimostrando che il peggior pericolo per un sopravvissuto ad una apocalisse zombie non sono i tanto bistrattati morti viventi, ma piuttosto i vivi sono già morti senza rendersene conto e senza vergognarsene.


In the Flesh cambia di nuovo tutto
Se “The Walking Dead” ha avuto il coraggio di far scendere agli zombie dal gradino più alto del podio del terrore, è “In the Flesh” a compiere il passo successivo. La serie prodotta da BBC e conclusasi sfortunatamente dopo solo due stagioni (con tre episodi nel 2013 e sei nel 2014) riscrive completamente il concetto di morto vivente.
Gli zombie lenti e voraci come quelli di Romero sono semplicemente affetti da una malattia curabile (la Partially Deceased Syndrome, PDS) che può essere tenuta sotto controllo assumendo regolarmente farmaci forniti dal servizio sanitario. Niente più terrore quindi e niente battaglie campali tra orde fameliche e coraggiosi eroi. Ma piuttosto una metafora delicata e commovente.
Guardati con disprezzo dalla popolazione sana, sfruttati da una società che li obbliga a ripagare i danni che hanno causato quando non erano coscienti, costretti a nascondere la loro natura indossando lenti a contatto colorate e strati di cerone, gli affetti da PDS diventano il simbolo di tutti coloro che, per colpe non loro, sono vittime di una società troppo spesso pronta a condannare secondo una morale censoria che esclude e deride chi non si adegua, chi prova ad essere sé stesso anche quando ciò significa essere l’unica nota armoniosa in una cacofonia dominante. Il mite e sentimentale Kieren, la gioiosa e incontenibile Amy, il tormentato Rick, il sofferto Simon sono gli zombie di questa insolita serie, ma sono le uniche figure positive di un mondo che non fa nulla per non dimostrare che i veri morti viventi sono quelli che si ritengono sani.


Gli zombie e il trash
Se “In the Flesh” ha avuto il merito di rileggere completamente la figura del morto vivente donandole una umanità dolente, “Z Nation” fa invece un deciso passo indietro. E d’altra parte basta sapere che a produrre “Z Nation” è la Asylum responsabile di “Sharknado” per capire che la serie va citata perché porta gli zombie nel regno del trash.
Un trash esibito con tale e tanta compiaciuta consapevolezza (tra zombie neonati, zombie fosforescenti, zombie carichi di anfetamine, zombie sotto l’effetto di cannabis per elencare solo alcune perle) che è impossibile non rendersi conto di quanto volutamente cercato sia questo ritorno alle origini. “Z Nation” non ha infatti alcuna intenzione di affrontare alcun dilemma morale (e lo dice esplicitamente uno dei protagonisti nel primo episodio), ma piuttosto preferisce infarcire la narrazione di ritmi adrenalinici con scene splatter che vogliono piacere per il loro marcato eccedere, piuttosto che per la qualità della regia o della recitazione. Eppure, forse perché attratti dal fascino vintage di un ritorno alle radici del mito, “Z Nation” è riuscita a ritagliarsi un proprio spazio nell’affollato panorama televisivo facendo del trash la calamita per attirare un non esiguo numero di appassionati.
Il mondo zombie ha ancora molto da dare a cinema e serie tv (e qui, solo per motivi di spazio, abbiamo trascurato le declinazioni comiche del genere viste al cinema con gli spassosi “Benvenuti a Zombieland” e “L’alba dei morti dementi” o in tv con il chiassoso “iZombie”).
Una delle frasi ormai proverbiali del film di Romero diceva che “quando all’inferno non ci sarà più posto i morti cammineranno sulla terra”. Nessuno può dire quale sia la situazione alloggi nel regno di Lucifero, ma quel che è certo è che oggi i morti camminano in tv. Dopotutto, non è affatto un male per noi spettatori.