Prima o poi qualcuno dovrà svelare l’arcano e chiarire se è la realtà a divertirsi a copiare Homeland o sono i suoi autori a saper leggere tanto bene gli eventi da anticiparli e metterne in scena una versione per i fan della serie. Quale che sia la verità (e la seconda opzione è un tantino più probabile in effetti), quel che è certo è che nessuna serie ha la capacità di Homeland di tessere una trama affascinante usando come ordito l’attualità politica e la cronaca quotidiana.
Una nazione ostaggio del suo presidente
Ha il volto deciso di Elizabeth Marvel la presidente degli Stati Uniti Elizabeth Keane, ma il modus operandi ha il nome e cognome del presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Scampata all’attentato organizzato da frange deviate dell’esercito e dei servizi di sicurezza, la Keane ha reagito con un’ondata di arresti ed epurazioni che non può che ricordare l’identica e ancora più spietata reazione del suo omologo ad Ankara in seguito al fallito (o fittizio?) colpo di stato di questa estate. Ad accomunarli non sono tanto i numeri quanto piuttosto la sensazione straniante ed opprimente della massima carica istituzionale che reagisce ad una offesa ricevuta colpendo ancora più duro e sospendendo il rispetto di quegli stessi diritti in nome dei quali sta avocando a sé poteri tanto straordinari da risultare ai limiti (se non oltre) di una legalità democratica in pericolo.
Ancora più scocciante è rendersi conto quanto gli Stati Uniti presentati in questa premiere di Homeland siano avviluppati in una ferrea rete che incatena tutto e tutti in una ragnatela fatta di detenzione immotivata e paura onnipresente. Una pesante catena che paralizza la commissione d’inchiesta impendendole di innescare quel virtuoso sistema di pesi e contro pesi che solitamente garantisce la tenuta delle democrazia a stelle e strisce. Una paranoia presidenziale che costringe anche i collaboratori più stretti (tra cui compare la new entry Linus Roache) a dover subire le ire funeste di chi non è disposta ad accettare più alcuna obiezione. Un contrattacco talmente tirannico da trasformare un giornalista fazioso e amante delle fake news come Brett O’Keefe in un martire della libertà difeso da quegli stessi poliziotti che dovrebbero obbedire ad ordini palesemente ingiusti e draconiani. Una malsana mania di folle onnipotenza che non tollera neanche l’indipendenza della legge, arrivando a far sospettare in maniera pesante che la morte del generale McClendon sia stata ordinata per chiarire in modo plateale chi è che comanda mettendosi anche al di fuori della legge se questa non si piega ai suoi diktat.
Se la svolta autoritaria della Keane, sebbene preannunciata dal season finale della passata stagione, rappresenta un unicum per Homeland, diverso è il discorso per il modo in cui Carrie si trova ad affrontare questa nuova nemesi. Orfana di Quinn (il cui ricordo non è esplicitamente citato in questa premiere, ma sicuramente giocherà un ruolo non secondario) e privata anche di quel Saul che è per lei un padre spirituale, Carrie non può che essere l’unica cosa che è sempre stata: un cane sciolto che insegue la preda sempre e comunque. Anche quando magari è un’auto che corre così veloce che logicamente non dovresti neanche provare a prenderla. Perché la battaglia della bionda ex agente ed ex consigliere per la sicurezza nazionale della allora neo eletta presidente è destinata ad una sicura sconfitta se intende procedere partendo dall’assunto che tutti si piegheranno alla giustezza della causa. Ed, invece, né il senatore Paley né il suo ex collega del FBI possono farsi bastare le belle parole e la fervida dedizione di Carrie per sferrare quell’attacco frontale che può essere decisivo se e solo se è basato su molto più che la buona volontà.
Ciò che impedisce a Carrie di vedere questa quasi lapalissiana evidenza non è la sua malattia come benignamente pensa sua sorella. Ma la cronica incapacità di Carrie di scindere il privato dal pubblico, la famiglia dal lavoro, i sentimenti dalla professionalità. È per questo che non esita a chiedere aiuto alla inesperta nipote che si farà ovviamente scoprire subito mettendo anche a rischio la sicurezza di Franny lasciata in custodia ad uno sconosciuto. Per questa stessa ragione Carrie accumula debiti su carte di credito intestate ad identità fittizie come farebbe se fosse ancora un agente segreto nonostante non lo sia più. Per questa abitudine a ritenere un nemico chiunque non giochi nel suo stesso campo è ferocemente ostile al cognato che pure la sta pazientemente ospitando. Una Carrie che non è quindi prigioniera della Keane, ma di sé stessa confermando quel carattere distintivo che dopo sette stagioni di Homeland i fan ormai conoscono a memoria.
Nemici e amici dello stato
Lo status di Carrie come protagonista di Homeland automaticamente porta ad identificare in lei il personaggio positivo, il che trasforma automaticamente la Keane nel possibile villain di questa stagione. E, d’altra parte, lo stesso finale di questa premiere si fa leggere benissimo come l’oltrepassare la linea ultima che separa il buono dal cattivo. Se Carrie e Kean ricoprono questi due ruoli archetipici, altrettanto scontato è che ai loro fianchi si schiereranno due gruppi per ora ancora non completamente definiti.
Ovvio è iscrivere Max al team Carrie, perché il mite tecnico informatico (capace non si sa come di infiltrarsi nella squadra che va a perquisire la casa del chief of staff della Keane) è diventato ormai un punto fisso in ogni missione della bionda agente segreta (e non a caso il suo interprete Maury Sterling è stato promosso series regular). Dovrebbe, invece, parteggiare per la dittatoriale presidente David Wellington non fosse altro perché è stata lei a salvarlo da un esilio politico i cui motivi sono ancora oscuri. Ma l’aver affidato il ruolo a Linus Roache, che aveva in precedenza ammaliato per la sua interpretazione dell’astuto re Ecbert in Vikings, potrebbe suggerire che la sua fedeltà non sia poi così incrollabile. Ed, in effetti, già la sua prima mossa punta verso un furbo opportunismo che sa fare concessioni in vista di maggiori guadagni. In questo senso va letto il tentativo di arruolare Saul nella squadra presidenziale. Scelta che è anche dettata dalla necessità degli autori di non lasciare il personaggio di Mandy Patinkin fuori dai giochi. Meno semplice, invece, capire come si inserirà in questo diorama Brett O’Keefe i cui inganni avevano additato come personaggio da vituperare, ma che ora si trova nell’insolita condizione di vittima braccata per quanto non innocente.
Homeland torna con una premiere molto introduttiva che svolge tuttavia bene il prevedibile compito di tratteggiare il fondale su cui si muoveranno i personaggi in questa settima stagione. Uno sfondo che ancora una volta sembra più reale della realtà stessa.
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In principio, quando ero bambino, volevo fare lo scienziato (pazzo) e oggi quello faccio di mestiere (senza il pazzo, spero); poi ho scoperto che parlare delle tonnellate di film e serie tv che vedevo solo con gli amici significava ossessionarli; e quindi eccomi a scrivere recensioni per ossessionare anche gli altri che non conosco
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