
Il Filo Nascosto: recensione del film con Daniel Day Lewis
Titolo: Il filo nascosto (Phantom Thread)
Genere: dramma sentimentale, thriller psicologico
Durata: 130 min
Produzione: USA, Regno Unito
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson
Cast principale: Daniel Day-Lewis, Lesley Manville, Vicky Krieps, Brian Gleeson, Camilla Rutherford
Reynolds Woodcock è uno stilista in voga nella Londra degli anni ’50. Il fascino misterioso e il gusto raffinato ne fanno il preferito dalle dame dell’alta società. Reynolds vive e lavora con la sorella Cyril nel suo atelier-mausoleo, in un mondo al femminile freddo e statico in cui nient’altro conta se non la sua arte. In una delle sue rare escursioni incontra Alma, una ragazza di campagna genuina e intraprendente. Tra i due nasce un legame potente che darà vita a una serie di inaspettati eventi.
I film di Paul Thomas Anderson sono per chi ama osare. Facile, direte voi, tutt’altro. A me personalmente non piace osare, a nessuno piace, è genetico. Il cervello umano non è programmato per osare ma al contrario per essere coccolato, rinchiudersi nella sua comfort zone fatta di rassicuranti certezze e prevedibili routine. Reynold Woodcock ne è un esempio lampante. Il guru dell’alta moda è un perfezionista ossessivo, anaffettivo e monomaniacale, i suoi rapporti con l’altro sesso rasentano il possesso e la sottomissione, la sua vita è programmata affinché tutti gli elementi, tempo, spazio, rapporti, persino i pasti, siano propedeutici alla sua arte creativa. Non c’è tempo per l’ascolto e l’apertura all’altro (“I simply have no time for confrontations”), il nuovo e l’ignoto sono messi al bando.
Anche il cinema di Anderson è qualcosa di simile. La sua messa in scena rasenta il perfezionismo, il talento visivo è indiscusso e si dipana attraverso il rigore geometrico, movimenti sinuosi, una maestria consolidata nel comporre le inquadrature e orchestrare tutti gli elementi in un flusso omogeneo e coerente. Lo sguardo di Anderson si appropria del mondo e lo sottomette a una visione sempre intensa, stratificata e potente.
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Un altro il cui talento visivo è indiscusso è Spielberg. Ma prendete la sua ultima fatica, The Post, dopo una scansione pregevole in cui gli elementi profilmici hanno strappato applausi (regia, montaggio, fotografia, recitazione), negli ultimi venti minuti tutte le singole caselline tornano al loro posto, la retorica prende il sopravvento e le sfumature del plot sono annichilite da un impianto ideologico brutale. Ne Il filo nascosto succede l’esatto contrario. Dove lì è ristabilita la legge marziale della ratio e del controllo, qui si scatena il caos. Perché l’universo è caos, fatevene una ragione, e si verserà del sangue (There will be blood).
Il filo nascosto è un viaggio inquietante nella psiche di Reynolds Woodcock, le chiave psicanalitica è evidente. I continui rimandi alla madre, le convinzioni che sfociano in paranoie, la misoginia e misantropia striscianti e la regressione infantile come gesto liberatorio. Ma Il filo nascosto è anche un poderoso saggio del talento andersoniano e si colloca alla perfezione nella sua poetica.
Inutile attardarsi sui prodigi della messa in scena. I personaggi sfumati, il ritmo sgrammaticato, le musiche avvolgenti, la regia ambiziosa e ipnotica, l’atmosfera tombale dell’atelier che è un piccolo capolavoro di scenografia e luci, sono tutti elementi che si commentano da soli. E poi c’è lui: Daniel Day Lewis, una macchina infallibile di profusione di fascino, che pennella un personaggio intensissimo e complesso, glaciale e nevrotico, fragile e bastardo.
Entrambi sembrano cospirare alle spalle dell’ignaro spettatore lungo tutto il film, prima fingono di portarlo lungo traiettorie consolidate e poi, all’improvviso, lo sorprendono con raggelanti contro-verità. La pellicola parte come dramma sentimentale per sconfinare poco a poco nell’horror da camera. Il filo nascosto è il filo da torcere che Alma dà a Reynolds. Come già accadeva in The master. Chi domina chi? Chi salva chi? Se Freddy Quell si trasformava da adepto a modello del suo stesso mentore, anche in questo caso i ruoli si scambiano e la cavia diventa guida.
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Le ultime sequenze sono di pura follia ed emergono le molecole di caos che da sempre sono il filo nascosto della poetica andersoniana, il suo vizio intrinseco (Inherent Vice). Si pensi alla pioggia di rane in Magnolia o all’anarchia scomposta di Freddie Quell. Ma anche all’interno del caos, della malattia e del vomito scaturiti dall’avvelenamento, può nascere la bellezza, l’empatia, l’osmosi alla vita e l’apertura all’altro. Perché l’unico modo che Alma ha di liberare Reynolds, di sprigionare la vita che si cela dietro il suo involucro vuoto, è avvelenandolo, degradandolo, umiliandolo.
Reynolds deve letteralmente sporcarsi le mani, sporcarsi i vestiti, e solo così potrà rinascere e riscoprire la purezza dei sensi, dell’imperfezione e del caos. Degradato dalla malattia a semplice corpo, sciatto, vulnerabile e circondato da tutte quelle donne, è come se Woodcock stesso partorendo il suo autentico io, il suo sè-uomo e non più bambino. Alma si rivela così per quello che è, non la sua musa ma la sua levatrice, un surrogato di madre, e come nel parto – il paradosso dei paradossi -, la più significativa di tutte le esperienze è anche la più dolorosa. Ma non finisce qui, i guai arrivano dopo.
Perché il topos della rinascita che passa attraverso il sacrifico è cosa nota. I due infatti si sposano ma le cose non vanno come dovrebbero, le ossessioni riaffiorano e il rapporto si deteriora. Alma prova a scuotere il contegno di Reynolds portandolo a ballare ma non basta, le incrostazioni del suo ego sono troppo forti, serve un altro trauma, un altro annichilamento. Ma qualcosa ci spiazza, deraglia, destabilizza le nostre congetture. Ed è qui che Anderson si distingue dagli altri mille autori che avrebbero preso in mano il copione. Ed è qui che egli ci chiede di osare, di accettare l’inaccettabile.
Nella scena mozzafiato in cucina, dove una serie di campi-controcampi restringe lo spazio sia visivo che cognitivo delle ipotesi, nell’istante in cui Reynolds intuisce che Alma è il suo carnefice (e noi già pregustiamo l’ira funesta), egli all’improvviso fa dietrofront e nella più sopraffina e sconvolgente delle epifanie, decide di prestarsi al sacrificio. Vuoi avvelenarmi? Ok fallo, salvami. Il finale è un ribaltamento di paradigma meraviglioso e terribile, una frattura che scompagina secoli di drammaturgia, da Aristotele a Propp, perché l’eroe che è entrato nell’oscura caverna una volta, decide di rientrarci ancora. Perché il luogo che dovrebbe rappresentare il suo sepolcro in realtà si rivela il suo tempio, la sua condanna la sua cura, in un avvelenamento che non uccide ma salva.
Un’altra contro-verità che il film suggerisce è questa: esiste una forma d’arte che intossica. Abituati come siamo al topos dell’arte che eleva, all’arte come voce del divino, veniamo spiazzati dalla figura di questo maestro che diventa schiavo della stessa maestria che dispensa. Reynolds è la vita vuota di chi non sperimenta o compromette, la mente che lotta per la libertà dal suo contegno, l’etichetta, il perfezionismo. E l’unico modo per salvarla dall’inferno e lasciar uscire il cancro, avvelenarlo, sacrificarlo e annientarlo. Farà male, certo, ma sarà necessario.
Tantissimi i rimandi che il film veicola. Penso a Kubrick, alla cura ludovico di Alex ma anche alla figura del maestro, il perfezionista per antonomasia, circondato da donne e animali nella sua torre d’avorio a Childwickbury. Penso ai contorti intrecci tra cibo e psiche dell’ultimo Costanzo (il sottovalutato Hungry Hearts), penso a Don Draper in Mad Men, anche lui infinitamente fragile e magnetico, così come nella scena del party di capodanno, quando la steady-cam si fa improvvisamente nervosa, penso a Ugo Tognazzi che barcolla in mezzo al caos, deluso e smarrito dal crollo delle sue certezze, nel memorabile finale de In nome del popolo italiano.
C’è tutto questo e ci sarebbe tanto altro. Perché quando talento visivo e profondità psicologica si incontrano, nascono le opere di Paul Thomas Andersson. Con questo film l’autore californiano non ci chiede di accettare l’immorale ma di accettare l’imperfezione, che sia essa estetica o filosofica, e seguirla dentro la grotta. Il filo nascosto è cinema d’autore che si finge ottimista ma si rivela irrimediabilmente beffardo. In ogni caso, film di una bellezza insindacabile. Chiudete tutto.