
Ma Loute: la recensione del film con Fabrice Luchini, Juliette Binoche e Valeria Bruni Tedeschi
Titolo: Ma Loute
Genere: commedia
Anno: 2016
Durata: 122 min
Regia: Bruno Dumont
Sceneggiatura: Bruno Dumont
Cast principale: Fabrice Luchini, Juliette Binoche, Valeria Bruni Tedeschi, Brandon Lavieville, Raph
Al Festival di Cannes di quest’anno, candidato alla Palma d’Oro, fra gli altri c’era il nuovo film di Bruno Dumont, Ma Loute. Il film francese ha diviso il pubblico del prestigioso Festival, ma anche quello internazionale e la critica.
Come capita spesso con le pellicole particolari e non ordinarie, alcuni hanno considerato il film fuori dalle righe, senza senso e da sconsigliare, mentre per altri il nuovo lavoro di Dumont è un tripudio di surrealismo grottesco ed esagerazioni burlesche che denunciano la società francese degli inizi del XX secolo.
In realtà entrambi i punti di vista sono corretti e veritieri, ma “al gusto non si comanda” e film del genere sono fatti solamente per un pubblico che riesce ad apprezzarli.
Bruno Dumont, che è ben conosciuto ed apprezzato in Francia, dopo una serie TV (P’tit Quinquin) e i suoi primi film di genere drammatico (L’età inquieta, L’umanità) si cimenta per la prima volta in una commedia, che scrive e dirige, prendendosene tutta la responsabilità.
Ma Loute è ambientato in un luogo preciso, in un tempo preciso: Nord della Francia, una baia vicino Calais, 1910. In questo luogo surreale, che sembra esistere solamente nei libri o nei dipinti, si stagliano contro l’azzurro chiarissimo del cielo ed il bianco purissimo della spiaggia un gruppo di personaggi bizzarri e inusuali.
Dal fondo della piramide sociale arriva la famiglia di pescatori Brufort, composta da papà Brufort, chiamato L’Eterno (Thierry Lavieville), sua moglie e una manciata di figli, di cui il maggiore è Ma Loute (Brandon Lavieville). Già i nomi dei personaggi sono tutti un programma. Raccoglitori di cozze alle prime luci dell’alba e traghettatori nel resto del giorno, i Brufort hanno la geniale idea di trasportare i ricchi borghesi in visita alla Baia da una sponda all’altra, portandoli in braccio in cambio di pochi centesimi, aggiudicandosi la stima e la fiducia degli abitanti del luogo.
In vacanza nella Baia arrivano i Van Peteghem, l’esatto opposto dei Brufort: una famiglia dell’alta borghesia che guarda ai poveri pescatori con aria di sorpresa, curiosità e divertimento, come se stessero ammirando dei teneri animaletti all’interno di una teca in uno zoo.
Fabrice Luchini è un eccentrico André Van Peteghem, un uomo che si muove convulsamente, parla in maniera drammatica e si entusiasma anche per il momento “aperì-aperì-aperitivo”! Sua moglie (e cugina) Isabelle (Valeria Bruni Tedeschi) è la classica donna alto-borghese che adora la sua casa in stile egiziano sovrastante la baia, ama prendersene cura, sgridare la povera cameriera al suo servizio e rispettare i riti del ceto sociale a cui appartiene. Lei adora quel luogo di vacanza, con tanto di flora e fauna sociale che lo caratterizzano, e trova tutto “divino, divino!”.
Infine, a dare una dinamica al film c’è il personaggio del commissario Machin (Didier Despres), il quale va in giro per la Baia cercando di risolvere il mistero delle numerose sparizioni che continuano ad accadere senza che se ne trovi una ragione oppure un colpevole.
La storia – che tecnicamente è un giallo – si dipana tra scene tragicomiche e surreali, dialoghi sconclusionati e paesaggi mozzafiato. La trama sembra svolgersi all’interno di un quadro di Monet o Manet, in cui una dama con l’ombrellino gode della vista del mare mentre il vento le scombina lo scialle che porta sulla testa.
La poetica del paesaggio viene però smorzata e sdrammatizzata dai personaggi stessi, che si sentono anche loro in un dipinto e commentano il pescatore sulla barchetta ad alta voce, tanto da mettere il pescatore stesso a disagio.
La pellicola diventa allora un teatro dell’assurdo nel senso più letterale, perché gli attori si lasciano andare in interpretazioni ultra-drammatiche, utilizzando la Baia come il loro palco personale, e ogni cosa che vi avviene è completamente assurda, ai limiti della realtà.
Persino la storia d’amore da manuale tra Ma Loute e Billie (situazione che occorre in ogni rappresentazione teatrale che si rispetti) non segue nessuna regola logica, se non quella dell’amore impossibile tra il ricco e il povero.
La società malata che Dumont ci racconta è ormai oltre la razionalità, tra incesti e cannibalismo, ambiguità di genere e il semplice amore e la semplice fame che ci spingono a fare di tutto. Si profila così sullo schermo una perfetta rappresentazione dell’ambiente sociale al tempo della Belle Epoque, un tempo di pace e benessere, ma che si sporge già sull’orlo del precipizio in cui cadranno tutti, ricchi, poveri, borghesi e pescatori allo scoppio della Prima Guerra Mondiale.
Il film è lento, per la maggior parte senza una musica di sottofondo a farlo scorrere con più fluidità o magari una storia avvincente a tenere tutto insieme, risultando difficile da guardare. Eppure ha qualcosa da dire, ed il messaggio arriva forte e chiaro. Tra un personaggio che inizia a fluttuare nell’aria, e un lieto fine che arriva per miracolo, i cattivi diventano più buoni e tutto è bene quello che finisce…e basta (che sono già passate due ore!).
E se qualcosa ci rimane, di tutto il circo che ci è appena sfilato davanti, è il giudizio amaro del cognato di André, Christian Van Peteghem (Jean-Luc Vincent): “We know what to do, but we don’t do”.
Ai posteri l’ardua sentenza.