Non che ce ne fosse bisogno per saperlo. Ma è curioso leggere che il Guinness dei Primati stabilì ufficialmente che fosse lui a detenere l’inusuale record di persona più famosa al mondo. Record che si aggiungeva a quello di autore dell’album più venduto al mondo. E a quello di cantante con il maggior numero totale di dischi venduti. E a quello postumo di essere l’unico artista ad essere entrato nella Top 10 della Billboard Hot 100 in cinque decenni diversi. Lui è ovviamente Michael Jackson. Che non avrebbe certo voluto essere anche il condannato di Leaving Neverland.
L’angelo che era anche un diavolo?
Tra i record di Michael Jackson c’era anche quello di essere l’intrattenitore che ha supportato il maggior numero di associazioni di beneficenza. Capace di donare circa 400 milioni di dollari a enti di assistenza, ospedali, vittime di guerra, organizzazioni no profit. Di spendersi in prima persona per organizzare concerti per la raccolta di fondi rimasti nella storia della musica come i pezzi scritti e cantati a più voci in quelle occasioni (We are the World e Heal the World per citarne solo due).
Una vita spesa sotto l’occhio instancabile delle telecamere e dedicata alla musica e a cercare di portare un aiuto concreto a chi ne aveva bisogno. A favore soprattutto dei bambini tanto da ricevere anche la laurea honoris causa in Lettere e Pedagogia dall’Università di Oxford. Uno dei tanti riconoscimenti che cristallizzavano l’idea a tinte pastello di un Michael Jackson nei panni eccentrici e luccicanti di un angelo dei bambini. A cui si poteva perdonare anche il discutibile rapporto con le sue origini, lo sbiancamento sospetto della pelle, le operazioni eccessive di chirurgia estetica.
Ma gli angeli con i bambini ci giocano e poi li salutano. Non se li portano dietro durante i tour infiniti, allontanandoli da madri tenute ogni giorno un po’ più lontano. Gli angeli con i bambini dividono il tempo di un giro di giostra e poi li riportano alla loro vita magari meno esaltante, ma più sincera. Non li sequestrano in un mondo dorato tenendoli con sé come fossero giocattoli a cui non vuoi rinunciare almeno fino a che non ne trovi uno nuovo. Gli angeli li salutano alla sera, non li portano a letto con loro. Nello stesso letto. A fare ciò che un bambino non dovrebbe neanche immaginare. E che invece deve vivere per colpa del diavolo dietro la maschera.
Leaving Neverland è l’ennesima puntata di questo dubbio. Era un angelo Michael Jackson? O ne indossava la maschera per nascondere il volto di diavolo?
A rispondere un deciso e sconvolgente sialla seconda domanda sono Jimmy Safechuck e Wade Robson che conobbero Jackson quando avevano sette e cinque anni rispettivamente. Sono loro a raccontare a Dan Reed, regista britannico già autore di The Paedophile Hunter, il loro rapporto con il re del pop e di come questo fosse degenerato da una amicizia disinteressata ad una serie di abusi sessuali andati avanti per anni con ritmo a tratti quasi quotidiano. Trasmesso in anteprima al Sundance Festival e poi dalla HBO il 3 e 4 Marzo, Leaving Neverlandha riacceso il dibattito tra innocentisti e colpevolisti portando a gesti estremi quali la cancellazioni di tutte le opere di Michael Jackson dal palinsesto di alcune radio in Nuova Zelanda e Australia e persino la cancellazione dell’episodio dei Simpson in cui il cantante prestava la voce ad uno dei personaggi.
Visibile in Italia su La Nove il 19 e 20 Marzo, Leaving Neverland è un documentario che non concede nulla all’estetica. Meno ancora si preoccupa di costruire una storia. Non ci sono particolari scelte in fase di montaggio preferendo seguire un percorso temporale lineare che non costruisce l’attesa di un evento chiave, ma conduce lo spettatore a quel momento con la stessa naturalezza di chi lo ha vissuto. Ciò che interessa a Reed è lasciare la parola ai protagonisti. A Jimmy e Wade. Ai loro familiari. Alle loro mogli. A chi di quella tragedia narrata è stato la vittima.
È per questo che la telecamera si muove molto poco restando fissa sui volti che parlano, sui corpi che si muovono scossi dai ricordi, sui sorrisi e sulle lacrime. Perché le storie di Jimmy e Wade sono quelle di due bambini che stavano vivendo un sogno e che quel sogno hanno visto trasformarsi in incubo. Un incubo che erano troppo piccoli perfino per capire quanto li avrebbe segnati un domani. Un brutto sogno che sarebbe rimasto lì per ricomparire solo quando gli occhi sono riusciti finalmente a vedere nel buio.
Leaving Neverlandnon è un documentario su Michael Jackson. È un documentario su due vittime del più insospettabile dei pedofili. Non parla del re del pop. Parla di Jimmy e Wade.
Proprio questa sua impostazione rende tuttavia Leaving Neverland un prodotto debole proprio dal punto di vista documentaristico. Lasciare completamente la parola a Jimmy e Wade ha il controproducente effetto di fornire un’opera che sembra non interessarsi a contribuire alla ricerca della verità. Nessuno dei due fornisce riscontri concreti alle sue accuse néil regista si preoccupa di andare a verificare in modo indipendente le loro storie. Soprattutto, manca la parola alla difesa per cui l’operazione può essere facilmente accusata di cercare il successo tramite il clamore mediatico di accuse a chi non può difendersi. Innocentisti e colpevolisti resteranno sulle loro posizioni dopo aver visto Leaving Neverland perché ognuno troverà argomenti convincenti sia per lodarlo che per vituperarlo.
Ma, forse, l’errore è proprio quello di definire Leaving Neverland un documentario. Perché è, in realtà, la descrizione di quel che resta dopo una inimmaginabile tragedia. E quel che rimane è il dolore sincero di Jimmy e Wade. Le lacrime di Stephanie che aveva il solo dovere di proteggere il suo unico figlio Jimmy dal male ed invece nelle mani di quel male lo ha consegnato senza mai accorgersene. Le parole spezzate di Jody che ha distrutto la sua stessa famiglia per far diventare Wade il coreografo di successo che è oggi, ma ha fatto pagare a lui, ai suoi altri figli, a suo marito suicida il prezzo di non aver capito cosa stava succedendo. I rimorsi di Chantal che ha sempre difeso l’aguzzino di suo fratello per poi scoprire troppo tardi che era stata ingannata e che ha così ingannato e accusato gli altri. Le paure di Laura e Amanda che hanno visto crollare i propri mariti e vivono nel terrore di come il loro passato possa influire sul loro presente di padri.
Leaving Neverland è dopotutto un viaggio. Che erano entrati a Neverland pensando fosse il sogno di un Peter Pan per poi lasciarla avendo scoperto che non era l’Isola che non c’è, ma l’inferno che non doveva esistere.
Vorrei vedere voi a viaggiare ogni giorno per almeno tre ore al giorno o a restare da soli causa impegni di lavoro ! Che altro puoi fare se non diventare un fan delle serie tv ? E chest' è !
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