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The Walking Dead: Recensione dell’episodio 7.03 – The Cell

The Cell, lo dico con una sottile vena provocatoria, è l’episodio migliore di The Walking Dead andato in onda negli ultimi non so anch’io quanti mesi.

Perché è un episodio che sperimenta e che fa dei molteplici piani di comunicazione la sua carratteristica principale. Da una parte ti mostra una cosa, ma te ne dice un’altra. Ti costruisce una realtà, ma ti mette in guardia dal farti condizionare dal pacchetto con il quale è stata confezionata. Ti fa vedere diverse scene, che poi raggiungono il proprio senso compiuto molto più avanti lungo la narrazione.

The Cell è un labirinto di discorsi intricati su loro stessi che rischia tuttavia di lasciare indietro lo spettatore, che magari può non capire, arriva persino ad annoiarsi e ad addormentarsi. Un grande rischio è stato corso per questo terzo episodio della settima stagione. D’altronde, il settimo anno di The Walking Dead è voluto iniziare proprio rischiosamente, con la macabra e selvaggia uccisione di Glenn e Abraham e la relativa perdita di ascolti. Così, dopo essere passati dal villaggio di Ezekiel, intrappolato in una sorta di magico incantesimo illusorio, ci ritroviamo nel centro abitato di Negan, The Town Called Malice, come cantano i Jam in sottofondo, mentre su una vecchia televisione scorre la sigla del telefilm, allora si chiamava così, Casalingo Superpiù (anche se dal titolo in inglese si capisce meglio il perché della scelta di questa vecchia serie, ovvero Who is the boss?) .

Di conseguenza veniamo direttamente catapultati in uno scenario che potrebbe essere ambientato tranquillamente negli anni ’80 e dal quale ci salva la malvagità delle persone. Così, mentre Dwight fa il prepotente con tutti per rimediare gli ingredienti del suo prossimo panino, la gente si ammazza per qualsiasi motivo. E tutti adorano Negan come fosse il messia. Ci pensano gli zombie a riportarci nella realtà (come una sorta di ribaltamento dei campi di azione) fatta di un recinto con all’interno nonmorti impalati per svolgere differenti mansioni.

Walking DeadCambia la musica, ma non lo spartito generale. Dopo un brusco salto al presente, siamo pronti per essere spediti all’interno della cella dove vive Daryl. In sottofondo i Collapse Hearts Club con Easy Street a torturare il prigioniero. Easy Street è un po’ il filo conduttore dell’episodio, non solo perché puntualmente la canzone piomba a tutto volume a torturare Daryl (e noi), ma anche perché è la “scelta facile”, fra molte virgolette, optata da Dwight e Sherry dopo la morte di Tina. Ora forse qui arriva tutta la parte astrusa di The Cell, che per 20-30 minuti gira attorno al nocciolo della questione senza mai, volutamente, focalizzarlo, spargendo indizi qua e là che hanno fatto indispettire i più.

La questione alla fine è molto semplice: la scelta di Dwight e Sherry è stata quella di tornare da Negan, supplicando perdono. Dwight è stato punito severamente ed è diventato il tirapiedi di Negan. Sherry ha preso il posto di Tina. La sorella avrebbe dovuto sposare Negan e Sherry si è offerta di rimpiazzare il vuoto per veder risparmiata la vita del marito, il quale, all’inizio di puntata, si becca anche il test di gravidanza (negativo) in bellavista e Negan che lo stuzzica offrendogli una notte insieme alla consorte. Contrariamente a Dwight, invece, Daryl non cede alle offerte di Negan, resiste, anche a costo di farsi torturare e pestare, nonostante il pigiamone con la A sopra e la carne per cani costantemente infilata nei panini. Tutto qua. In effetti molto poco, all’interno di un episodio che si ama o che si odia. Dal mio punto di vista da apprezzare, perché offre qualcosa di diverso rispetto alla normalità. Già durante l’arco narrativo del Governatore si era tentato di dare spazio nel racconto ai personaggi negativi, ma quello vogliamo ricordarlo tutti come uno dei periodi peggiori di The Walking Dead.

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Ci sarebbe anche dell’altro in realtà. La puntata dedicata a Dwight arriva più in profondità, quando a scappare è un ex compagno di “faccia bruciata”. Non appena il tirapiedi lo raggiunge, quello che viene messo in scena è praticamente la versione didascalica di un manuale di storia e sociologia sul perché i tanti deboli non si uniscono insieme per porre fine alla tirannia dei pochi, forti e cattivi. Del potere della forza e del potere della paura se ne è ampiamente discusso dopo la fine dei totalitarismi in Europa, qui, la risposta di Dwight aggiunge qualcosa in più: inutile scappare o combattere Negan; fuori, nel mondo, per loro, c’è solo qualcosa di altrettanto spaventoso. In più, come sottolinea più tardi Daryl, esistono anche persone che, oltre a dover fare delle scelte per sé stessi, le devono fare anche per proteggere gli altri. Daryl non è uno di questi, Dwight sì.

Risposte confermate anche dallo stesso fuggitivo che a quel punto preferisce morire. Ed ecco che, proprio quando Dwight sembrava essere recuperabile, il finale di The Cell ci rivela che ormai è un b$%ç##£?o p§<£o fatto e finito e invece di sparare all’amico in testa, l’ha ucciso, l’ha trasformato in zombie e poi lo ha impalato nel recinto che tanto lo aggrada. Anche in questo caso il giochino è meschino: una scena tagliata, dove quello che interessa è nel fuori campo, che viene spiegata in un secondo momento.

Sono molto d’accordo con chi sostiene che mezzucci di questo tipo sono paragonabili ai film horror scarsi, che fanno paura solo perché fanno uscire improvvisamente figure deformi dalle ombre o perché ti sparano un rumore improvviso a tutto volume per farti sobbalzare. L’episodio e la sua idea di fondo potevano essere sviluppati in maniera decisamente migliore e non si capisce il senso, per un prodotto seriale, di iniziare a sperimentare al settimo anno di messa in onda dopo non averlo fatto mai. Stiamo tuttavia parlando di una serie che per l’ultimo anno, anno e mezzo, non avendo cose originali da dire, ha giocato sulla morte di Glenn (una volta che si è diffusa capillarmente la notizia che era un personaggio destinato a lasciarci) nel tentativo di tenere alta la suspance, ficcandolo in situazioni impossibili e assurde che mentre le vedevi non potevi non pensare “Ah, dunque qui lo fanno morire così”. Una serie che riesce ad essere originale e di impatto solo quando rimane fedele al fumetto e che non sembra mai essere stata capace di costruirsi una credibilità a sé stante, indipendente dal lavoro di Robert Kirkman, come invece, ad esempio, parlando sempre di prodotti mainstream, ha fatto Game Of Thrones, seppur obbligatoriamente, visto che i libri di Martin erano ormai terminati.

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Mentre sulle scelte narrative ci sarebbe da discutere, ma, almeno il tentativo sarebbe da apprezzare, nelle scelte espositive vedo solo come critica la discontinuità con tutto quello che ha preceduto la puntata e tutto quello che, penso, ne seguirà. L’utilizzo della musica anni ’80 è disturbante, spiazza. Ci restituisce un ritmo allegro, gioviale mentre per contrappunto ci presenta un uomo nudo, chiuso in cella, torturato, e un villaggio dove il più stronzo vive, usufruendo del lavoro degli altri. Quando c’era quella musica, in tv e al cinema, i confini erano ben delineati. Non solo i cattivi erano cattivi e i buoni erano buoni, ma i cattivi erano gli altri (gli alieni, i russi, i coreani, i mostri), non erano i nostri vicini di casa o la nostra stessa famiglia. The Walking Dead si basa sulla realtà opposta, non esalta le virtù di un popolo, ma ne sviscera le peggio nefandezze e la musica anni ’80 sottolinea quasi in maniera perversa (il classico dito nella piaga) la ferita che si è andata a formare fra quello che c’era prima (Who is the boss ?) e quello che c’è dopo, fra quello che ha anticipato l’apocalisse e come invece all’apocalisse si è deciso di sopravvivere. E poi c’è Cryin’ di Roy Orbison, roba che, ai cultori di prodotti visivi da decostruire per capirne il significato, fa addrizzare i peli della pelle, perché pensi direttamente a David Lynch e al mal di testa che ti fa venire. Certo, qua non siamo lontanamente paragonabili, è solo un tentativo, venuto male, di imitazione, ma c’è comunque Cryin’.


Poi ti svegli e realizzi che Dwight può morire anche domani e che del suo ruolo in The Walking Dead ci è sempre interessato fino ad un certo punto, decisamente poco. 

Voto: 3.5/5

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Federico Lega

Fra gatti, pannolini, lavoro, la formazione del fantacalcio e qualche reminiscenza di HeroQuest e StarQuest, stare al passo con le serie tv non è facile ma qualcuno lo deve pur fare

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