
Vikings: sopravvivere agli eroi – Recensione della stagione finale
“Sventurata è la terra che ha bisogno di eroi” faceva dire Bertolt Brecht al suo Galileo. Con ardimentoso coraggio si potrebbe plagiare questa frase per piegarla alle esigenze del recensore pigro. Scrivendo quindi “sventurata è la serie che ha bisogno di eroi”. Perché quando questi escono di scena, la serie dovrebbe avere il coraggio di chiudere. Ma (e qui si continua di citazioni) “il coraggio, se uno non ce l’ha, non può darselo”. E quindi va avanti per altre due stagioni ancora fino ad arrivare alla sesta e arrendersi salutando tutti. Come ha appena fatto Vikings.

LEGGI ANCHE: Vikings: Valhalla – Cosa sappiamo dello spin-off della serie di Michael Hirst
La fine dell’era d’oro
I dieci episodi che compongono la seconda parte della sesta e ultima stagione avevano il compito preannunciato di chiudere la serie. Qualcuno non a torto direbbe che questo saluto arriva con troppo ritardo perché la morte di Ragnar nel finale della quarta stagione è il vero finale di Vikings. Spostare il focus sulle vicende dei quattro figli di Ragnar è stato un tentativo di rendere ancora interessante una serie che si era ormai ingrandita a dismisura arrivando a contare venti episodi a stagione contro gli iniziali dieci.
Ivar è sembrato essere un naturale protagonista, ma è stato in fretta chiaro come questa scelta si fosse trasformata in uno stanco ripetere le stesse dinamiche cambiando solo le location o le alleanze. Bjorn e Ubbe contro Ivar e Hvitsek. Bjorn contro Harald. Harald e Bjorn contro Ivar e Oleg. Bjorn in Nord Africa o Floki in Islanda. Ivar sulla via della seta o Ubbe in Groenlandia. Un tourbillon di luoghi e alleanze che è sembrato spesso solo un girare a vuoto in cerca di una nuova identità.
La verità è, invece, quella che amaramente riconosce Gunnhild nei primi episodi di questa ultima stagione. Vikings doveva terminare perché finita era l’epoca degli eroi. Dei personaggi che avevano retto le passate stagioni, nessuno era rimasto. Niente più Ragnar e Floki (ancora vivo ma ormai esiliato). Niente più Lagertha e Rollo. La gloria ormai risplendeva solo intorno a Bjorn la cui morte era inevitabile dopo il finale della prima parte della sesta stagione. Con loro era, in verità, finita anche la natura stessa della serie. Come Harald stesso riconosce dopo aver conquistato infine Kattegat, il tempo degli eroi è finito. Il tempo delle battaglie e delle lotte. L’era delle avventure alla ricerca di nuove terre. L’epoca della scoperta di nuovi popoli con cui interagire. Gli anni delle guerre per un potere che, dopotutto, non da alcuna soddisfazione.
Si percepisce quest’aria di disfatta in questa stagione finale di Vikings. La si sente, soprattutto, nelle parole di Gunnhild e nel suo modo di rapportarsi a Ingrid e Erik prima e al ritorno di Harald poi. Consapevole di essere ormai l’ultima delle shieldmaiden, la vedova di Bjorn è colei a cui spetta intonare le prime note del de profundis della serie. La sua coraggiosa scelta e il successivo amaro quanto orgoglioso discorso di Harald evidenziano quanto diversi siano ormai i metodi e i modi che determinano il potere e l’agire della nuova era.
Un’era a cui i protagonisti rimasti sono tanto estranei che Vikings non può più continuare. La fine tanto rimandata è ormai inevitabile.


LEGGI ANCHE: Vikings: Le 43 cose che (forse) non sapevate della serie TV
Il diverso addio di chi è rimasto
All’inevitabile conclusione Vikings arriva, tuttavia, con un ritmo altalenante. Quasi che gli autori avessero preso questa decisione all’ultimo momento ritrovandosi con troppe questioni aperte da chiudere in tutta fretta. Così quella che era stata presentata come un’invincibile armata guidata da un tirannico quanto astuto sovrano viene sconfitta in un attimo da una coalizione apparsa dal nulla. Allo stesso modo, il regno di Oleg crolla in un battito di ciglia senza neanche combattere e lo stesso orgoglioso e feroce Oleg né abbozza una reazione né sembra accorgersi dell’evidente complottare di tutti ai suoi danni. Un modo fin troppo sbrigativo di terminare una storyline a cui si era data una certa importanza nella prima parte della stagione.
All’identica fretta con cui si scrive il destino finale di Kattegat, Vikings oppone una parte centrale della stagione che ristagna tra dialoghi sterili e navi alla deriva per un tempo imprecisato. Una scelta che, tuttavia, potrebbe anche essere giusta dato che riflette il senso di incertezza che attanaglia i vari personaggi privi ormai di altre mete da raggiungere. L’idea finale di tornare a reclamare vendetta per Ragnar pretendendo di strappare il Wessex al redivivo Alfred è una trovata dopotutto improvvisata quanto improvvida. L’unica vera motivazione sembra essere quella di concludere il percorso di Ivar lì dove Ragnar aveva pronosticato eterna fama per il nome del Boneless.
Un’ultima battaglia che ha il compito di regalare agli spettatori per l’ultima volta la furia vichinga, la tenacia inglese, la violenza invasata di Hvitsek, la gioia sanguinaria di Harald, l’ambiziosa ferocia di Ivar, il coraggio della fede di Alfred. Un modo dopotutto coerente di dire addio a Ivar e Harald che rappresentavano l’anima guerriera di Vikings lasciando a Hvitsek sotto la guida di Alfred il compito di segnare il definitivo tramonto degli antichi dei a favore del nuovo dio cristiano.
Diverso il caso di Ubbe che aveva l’arduo compito di rendere interessante la saga islandese che aveva affossato il personaggio di Floki. Al netto della lunga parentesi dopo la fuga dalla Groenlandia, questa storia è paradossalmente quella che meglio si ricollega alle prime stagioni di Vikings. Oltre ad essere il più somigliante fisicamente, Ubbe si rivela il più simile al Ragnar delle origini. Il contadino che si fece re dei re era animato dalla sincera volontà di dare un nuovo mondo alla sua gente e dal profondo desiderio di conoscere e scoprire. Proprio ciò che, infine, troverà Ubbe che dovrà, tuttavia, comprendere anche come nessun mondo può essere nuovo se non lo sono le persone che lo abiteranno. Le parole di Othere e la dimostrazione di Kjetil in Groenlandia lo convinceranno, infine, a rinunciare a quell’aquila di sangue che lo avrebbe riportato indietro invece che avanti.
Non è un caso che Vikings lasci l’ultima scena proprio a Ubbe. Seduto sulla riva di un mare appena scoperto a guardare quietamente il sole calare. In una posa che ricorda quella di Ragnar prima e Bjorn poi mentre contemplavano le nevi di Kattegat dopo essere diventati re. Contemplando stavolta una spiaggia serena in una pace che non è mai appartenuta agli eroi del vecchio mondo.


LEGGI ANCHE: Alexander Ludwig: Le 10 cose che (forse) non sai dell’attore di Vikings
Un bilancio finale
Il tramonto che chiude l’ultimo episodio è anche il tramonto finale su Vikings. Una sera che scende placidamente invitando a ricordare quello che la creatura di Michael Hirst è stata. Una serie che ha segnato un approccio diverso al racconto televisivo. Sebbene questo aspetto si sia perso col proseguire delle stagioni, è indubbio che Vikings abbia avuto il merito di esaltare l’importanza della fedeltà alla verosimiglianza storica. Le usanze, gli abiti, le cerimonie, le tecniche di battaglia, le capacità nautiche di Ragnar, Lagertha, Floki erano quelli dei veri vichinghi. Anche i viaggi e i personaggi introdotti sono stati per buona parte modellati su quelli storici avendo cura di rispettare persino le barriere linguistiche. Mai in una serie si erano, infatti, visti genti diverse dover imparare l’uno la lingua dell’altro prima che i protagonisti potessero interagire.
Vikings ha saputo anche creare un gruppo di personaggi indimenticabili caratterizzandoli con cura e tracciandone un percorso evolutivo sempre coerente. Su tutti Ragnar con la sua intelligenza, la sua sete di conoscenza, la sua apertura mentale, la sua capacità di capire sempre quando combattere e quando invece tessere alleanze o tramare inganni. Indimenticabili anche i tanti alter ego di Ragnar, ognuno specchio di uno solo dei suoi multiformi caratteri. Athelstan per la voglia di imparare, Rollo per il furente coraggio, Floki per la sete di avventure, Ecbert per l’arte della diplomazia. Ma altrettanto indimenticabili resteranno anche le figure femminili con Lagertha ad emergere su tutte per la sua fierezza e indipendenza, ma anche Torvi e Elga.
Una serie che ha avuto l’unico difetto di voler sopravvivere a sé stessa. Di volersi illudere che bastasse dividere le qualità del singolo Ragnar nella moltitudine di personaggi che si sono contesi il ruolo di protagonisti. Finendo per comporre un coro la cui voce non poteva eguagliare il canto dell’unico vero solista che Vikings abbia avuto. Conseguenza nefasta lo scadimento della qualità complessiva che ha privato lo spettatore del piacere di seguire le ultime due stagioni.
Vikings ci dice addio con il quieto silenzio di due personaggi che guardano un tramonto. Il momento perfetto per ricordare ciò che è stato accettando infine che non si può sopravvivere agli eroi.