
Vikings: Recensione dell’episodio 3.07 – Paris
Vikings, con calma, continua la sua magnifica descrizione del mondo Alto Medievale, allargando i confini della sua narrazione ad un nuovo scenario, annunciato già negli scorsi episodi e a lungo favoleggiato: la Francia e quell’Impero Carolingio che qui viene introdotto alla fine della sua era. Dopo le grandi imprese di Carlo Magno e l’unità del regno mantenuta dal figlio Ludovico il Pio, dalla generazione successiva di eredi il grande Impero iniziò a frazionarsi e a vedere la sua magnificenza ridursi per via di lotte intestine e monarchi non all’altezza. La situazione descritta ci viene accennata in questo episodio in un passaggio in cui il Conte preposto alla difesa di Parigi accenna al regnate, Re Carlo, la possibilità di chiedere aiuto ai suoi fratelli, sdegnosamente rifiutata dal vecchio Imperatore della Francia Occidentale (così com’era chiamata quella porzione di Regno all’epoca).
La ricostruzione di Parigi è affascinante e fa un ennesimo balzo in avanti, rispetto ai miseri villaggi dei normanni ed anche alle povere città sassoni che più che altro si abbarbicavano sulle vetigie della passata dominazione romana. In queste mura, in queste chiese si percepisce, per contrasto a quanto visto finora, tutta la magnificenza che aveva stregato Athelstan.
Athelstan che continua ad aleggiare sull’episodio, perché il suo nome, che ne sancisce una presenza nell’assenza, continua a risuonare nelle parole di Ragnar, nella croce sul petto, negli sguardi carichi di rancore di Floki, sulle labbra di Ecbert e negli occhi di Judith. Il prete è ancora lì, presente sulle navi norrene mentre lo sguardo si posa su Parigi, vivido mentre Ecbert legge il Carpe Diem di Orazio. La filosofia del Carpe Diem è una cosa che, tra l’altro, ritroviamo molto profonda in Vikings: né io né tu possiamo sapere quello che gli dei hanno in serbo per noi, il futuro è ignoto e tracciato, abbiamo il presente e bisogna strappare il giorno che abbiamo (e sì, la filosofia di Orazio è più complessa del “cogli l’attimo” dell’interpretazione di Weir).
Il senso di sacro si respira a piene mani in questo episodio, che sia il Dio unico o i molti Dei ha poca importanza; la sacralità, le luci soffuse, il punirsi o l’esaltazione folle, il senso di destino segnato e la presenza costante di segni e icone in contrapposizione una con l’altra e che a volte si accavallano, danno la cifra di quanto questa serie e quel mondo fossero pervasi dal senso di divino e dal senso di fato e predeterminazione, che così forti e possenti escono in Vikings.
L’interpretazione della folle esaltazione mistica di Floki, come quella della dura flagellazione e dell’assoluto fanatismo di Aethelwulf sono decisamente piene e catturano lo spettatore nella loro contrapposizione solo apparente di persone che mettono nelle mani del loro Dio o Dei tutto e si completano solo in conseguenza di questa loro fede. La fotografia che rendono di questi personaggi è netta e delineata, frutto della buonissima interpretazione che ne danno Gustaf Skasrgard e Moe Dunford.
L’episodio in sè, comunque, è una necessaria transizione, perché nello scorso c’è stata quella chiusura importante, che ha anche chiuso un capitolo fondamentale di Vikings, e quindi qui è necessaria la presentazione di nuovi scenari e, come detto prima, il prosieguo più autonomo di altri. Ma la transizione in Vikings è rapida e affascinante in ogni caso, piena di nuove trame che si aprono e nuove possibilità e con l’assalto a Parigi già alle porte, che inizierà, mastodontico, nel prossimo episodio.
Molte sono le sottotrame presenti:
Vikings, alla fine, resta sempre un bel piacere.
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3.07 - Paris
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