
Twin Peaks – The Return: il nostro futuro è già passato. Recensione del finale
Apporre un punto alla fine di una frase presuppone che le informazioni in essa contenute soddisfino una certa logica. In linea di massima, l’idea contenuta dovrebbe essere in grado di essere compresa al di là degli altri periodi o frasi presenti nel testo, che richiede comunque una sua coerenza logica.
Quando però queste frasi sono tra loro mescolate, non seguono i principi di linearità temporale, spaziale e logica, spetta al lettore trovare il capo della matassa (previsto o meno). Ciò permette a chi legge di pensare in maniera più autonoma (ognuno ricaverà dal testo una fine, un percorso narrativo, un significato), ma può anche generare confusione e frustazione. Il rischio che una narrazione così (de)strutturata corre è di ritrovarsi all’ultima pagina con un pugno di (ormai) affezionati e un nutrito gruppo di detrattori affaticati.
Se volessimo chiudere il lungo capitolo riaperto da Twin Peaks – The Return, un capitolo per più di 25 anni ha raccolto appunti, teorie più o meno bizzarre (quasi quanto gli avvenimenti presentati nella serie originale come nel revival), riflessioni che andavano oltre la natura stessa del prodotto televisione, di sicuro non potremmo usare un punto fermo ma dei puntini di sospensione. E non perché le battute finali non possano essere considerate a loro modo una chiusura (come quel “How is Annie?” lo era 25 anni fa), rimarcherebbero piuttosto quella dimensione onirica in cui abbiamo fluttuato in queste 18 ore.
Sarebbe anche difficile, anzi impossibile, applicare gli schemi tipici della serialità televisiva ad un prodotto che, come già sappiamo, per stessa ammissione del suo creatore di televisivo ha ben poco ma allo stesso ne è intriso. Perché, come nel 1990, ne attraversa i generi come nessun’altra serie tv ha mai fatto, piegandoli al proprio volere e riscrivendone le regole.

Alla fine di questo meraviglioso e inquietante viaggio possiamo quasi mettere in discussione anche le parole di Lynch che ha definito The Return un film in 18 parti: questo Twin Peaks è sia televisione che cinema, ma al tempo non è nessuna delle due cose.
E’ un poema epico, un’opera d’arte concettuale, un testamento artistico, un discorso sulla spiritualità, una critica sociologica, una playlist musicale intramontabile, un manuale di di regia e sceneggiatura. Ma è più di tutto quella pagina strappata di un diario scritto dalle mani, dagli occhi, dal cuore e dallo stomaco di un’umanità intera. Quelle righe raccontano del nostro primo amore e di quel primo bacio che ci ha messo sottosopra lo stomaco, di quelle notti buie in cui a tenerci compagnia c’erano solo le nostre paure, di quella torta di ciliegie al cui solo pensiero ne sentiamo ancora il dolce sapore, di quell’incidente stradale da cui pensavamo di non uscire vivi, di quel segreto che il nostro migliore amico ci ha giurato di non rivelare mai al mondo.
A quanto pare è giunto il momento di dire addio a quell’amico, che in tutti questi anni ci ha guidato tenendoci la mano. Il suo saluto è appagante ma al tempo stesso insoddisfacente, perché ne avremmo di cose da chiedergli ancora. Non basterebbero forse altri 25 anni per venire a capo dei mille interrogativi che ora affollano i nostri pensieri. Vorremmo soprattutto sapere se quelle parole al nostro orecchio sussurrate e a lungo custodite siano solo frutto della sua fervida immaginazione. E’ la realtà o solo un sogno? O siamo noi ad aver sognato? Siamo noi i sognatori che vivono nel sogno che abbiamo noi stessi creato?
Queste domande non troveranno risposte, come è giusto che sia. Non ci saranno teorie matematiche, interpretazioni psicoanalitiche, precetti religiosi a far luce sui nostri dubbi. O forse ci saranno ma non saranno mai abbastanza. Perché questa è una storia che non finisce, almeno finché saremo noi a viverla.
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