
True Detective: della memoria e di altri demoni – la recensione della premiere della terza stagione
Solo una cosa ci resta da dire come commento finale: grazie. Così terminava la recensione del season – finale della prima stagione di True Detective pubblicata su queste pagine virtuali nel lontano Marzo 2014. Quel grazie riassumeva in maniera icastica l’apprezzamento unanime di critica e pubblico. Peccato che poi quel grazie sia tornato con un significato drammaticamente diverso (del genere “grazie a Dio è finita”) nei pensieri di chi ha guardato la contestatissima seconda stagione ad Agosto 2015. Tre anni e mezzo dopo Nic Pizzolatto ci riprova. E si guadagna di nuovo un grazie convinto.

True Detective 3: ritorno alle origini
Non ci sono più Matthew McConaughey e Woody Harrelson e anche Cary Fukunaga ha lasciato la serie dopo la prima stagione per mai chiariti screzi con il creatore di True Detective. Niente più Rust e Marty e nemmeno il Re Giallo con le stelle nere di Carcosa. Eppure, la doppia premiere di questa terza stagione è un continuo déjà-vu. Una successione di diverso ma tanto simile che può apparire a tratti quasi straniante. Come se si stesse rivedendo la medesima scena, ma con volti e luoghi differenti ma innegabilmente simili.
Sono almeno tre i perché di questa sensazione. Mahersala Alì e Stephen Dorff interpretano due detective alle prese con un caso intricato reso più inquietante dal ritrovamento non casuale di bambole che alludono a qualche culto misterioso. Wayne Hays e Roland West sembrano destinati a replicare le dinamiche di coppia di Rust Cohle e Marty Hart sebbene viaggino finora sugli stessi binari paralleli invece che su rotaie divergenti che finiscono per incontrarsi inaspettatamente. Ed anche stavolta le linee temporali sono più di una e Wayne è interrogato sul caso dieci anni dopo la sua prima presunta poi errata risoluzione.
E, quindi, questa doppia premiere sembra voler gridare allo spettatore timoroso che può stare tranquillo. True Detective aveva provato a percorrere una strada nuova nella seconda stagione, ma era deragliato in un fallimentare troppo poco e troppo assai. Ma la lezione per quanto amara è stata appresa e compresa. Dimostrarlo è lo scopo primario di questi primi due riusciti episodi.
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True Detective ritorna alle sue origini e Pizzolatto ci tiene a farcelo sapere.


Come prima più di prima
Squadra che vince non si cambia, recita un abusato adagio del calcio. Ma per le serie TV questa regola rischia di far precipitare una nuova stagione di una serie di successo in una stagnante ripetizione che è il più sicuro indizio di un fallimento prossimo venturo. A questo pericolo True Detective prova a sottrarsi replicando lo schema della prima stagione, ma aumentando e diversificando gli ingredienti.
Ancora un andare a ritroso nel tempo per raccontare ciò che è stato ed affrontare ciò che deve ancora essere. Ma stavolta le linee temporali diventano tre. Perché le indagini sulla sparizione di Will e Julie Purcell si svolgono negli anni Ottanta, sono descritte durante l’interrogatorio negli anni Novanta e vengono rievocate da una Wayne ormai anziano ai giorni nostri. Un triplo livello che rende ancora più difficile capire quale sia la verità ultima dal momento che ogni successo o fallimento potrebbe essere smentito o ribaltato dagli eventi successivi. Un gioco di specchi mobili che contribuisce a rendere più intrigante una trama che inizialmente appariva scritta secondo un già visto canovaccio.
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Diverso è anche il gioco delle parti tra i due detective che appaiono qui già in coppia e soprattutto molto affiatati e in sintonia sui metodi (leciti o meno) di condurre la caccia alla soluzione del caso. Idillio destinato a durare negli anni o a spezzarsi di fronte all’evolversi degli eventi? Impossibile dirlo con certezza fin da ora, ma lievi indizi a favore della seconda ipotesi si affacciano nell’assenza di Roland dalle storie ambientate negli anni successivi alla prima indagine.
True Detective potrebbe allora star ingannando il suo spettatore partendo da una simile coppia di poliziotti per far percorrere loro un sentiero inverso a quello di Rust e Marty. Non più due persone con caratteri diversi che imparano ad apprezzarsi e essere infine amici. Ma piuttosto due amici che il tempo ha diviso per motivi che ancora ignoriamo.
Un modo intelligente di tornare ad essere come prima, ma offrire più di prima.


L’illusione della memoria
Dalla doppia premiere emerge prepotente una ulteriore differenza tra questa terza stagione di True Detective e l’indimenticabile prima. Adottare più linee temporali significa privilegiare una ricostruzione dei fatti che faccia affidamento ai ricordi dei protagonisti. Ma quanto ci si può fidare della memoria? Specie quando questa inizia a svanire.
Quale e quanta verità si annida tra le parole dell’anziano Wayne? Ci si può fidare di chi deve ascoltare le sue parole registrate il giorno prima per poter parlare con la giornalista che sta per intervistarlo? Come si può credere al racconto di chi non sa neanche perché sua figlia è lontano da casa? E di chi ignora perché suo figlio sia visibilmente irritato dalla dimenticanza del padre? Quanto ci può essere di reale in un libro inchiesta di una maestra che voleva diventare scrittrice e si è trovata al posto giusto nel momento giusto? Ammesso che nel libro di Amelia ci sia davvero tutto e non sia stato omesso qualcosa per non rovinare la reputazione di Wayne. Domande che vanno a mettere in discussione la struttura stessa della serie proprio quando il quadro generale beffardamente suggerisce un rassicurante ritorno alle indimenticate origini.
A quale porto approderà la terza stagione di True Detective è ovviamente impossibile pronosticarlo. Ma quel che è certo che sarà un viaggio interessante da percorrere fino in fondo. Anche perché Mahersala Alì dimostra fin da questi primi episodi di essere un nocchiero pienamente affidabile.