
How To Get Away With A Murder – Recensione degli episodi 3.14-3.15 – He made a terrible mistake – Wes
“Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?”
Ecco il modo migliore, a mio parere, di descrivere Le regole del delitto perfetto. Un enigmatico e quasi utopistico interrogativo quello alla base della famigerata teoria dell’effetto farfalla, che tradotto in termini rustici ci impone una cruenta riflessione sulla concatenata consequenzialità degli eventi.
I nodi di questa terza stagione sono venuti finalmente al pettine, ma ciò non significa che non se ne siano creati di nuovi nel tentativo di sbrogliare quelli vecchi. Basti pensare a come tutto è iniziato: il tradimento di Sam con Lyla e la sua conseguente gravidanza hanno portato all’uccisione, in primis, di Lyla; di seguito, a quella di Sam, di Rebecca, della Sinclair (che indagava sui due omicidi precedenti), ed infine quella di Wes, ormai invischiato fino al collo nei loschi sotterfugi e camuffamenti di Annalise Keating. Se una sola singola azione ha portato con sé un bagaglio di effetti collaterali così pesante, come non aspettarsi di più e forse anche di peggio dalla prossima stagione.
In questo season finale di 90 minuti si scopre ben presto che i Mahoney hanno davvero ben poco a che fare con la morte di Wes, lasciando la scena ad un altro sicario mor(t)ale, il procuratore Denver, non prima, tuttavia, di aver rivelato agli spettatori che Wes non è figlio di Mahoney padre ma di Mahoney figlio. Denver, tuttavia, è stata solo una scialba pedina che ha fatto in modo che Wes morisse; il mandante, invece, risulta essere il padre di Laurel, personaggio sospetto dal primo fotogramma in cui l’abbiamo visto comparire. Che il padre di Laurel avesse qualcosa da nascondere, lo si è sempre un po’ percepito nell’aria e, a dirla tutta, non sorprende il plot twist che lo vede coinvolto nell’omicidio di Wes: depistatici per un po’ sia coi Mahoney che con la Atwood, per il finale di stagione bisognava trovare carne fresca da macello a cui imputare la morte di Wes, e chi meglio del padre di Laurel, un enigmatico, equivoco ed impenetrabile uomo a capo di un’importante compagnia messicana? Il movente è ancora un grandissimo punto interrogativo, ma indipendentemente da questo è arrivato il momento di accettare che Wes è morto, e non tornerà più (non funziona mica così negli shows di Shonda).
Per il resto, messe da parte le grandi scoperte che maggiormente sollecitavano la curiosità dello spettatore incallito, gli episodi viaggiano alla velocità delle stelle nella sfera dell’emotivo. Tra paure, rimorsi, rimpianti e negligenti responsabilità Connor riesce a vomitare il suo piccolo coinvolgimento la sera dell’incendio, raccontando di aver cercato di salvare Wes senza esserci riuscito e forse avendolo lasciato ancora vivo in casa, e decidendo di immolarsi per la causa andando a testimoniare alla sbarra. Questo blando tentativo di redenzione comporta tuttavia più complicazioni del previsto, come del resto spesso accade: ogni bonario e genuino intento di salvaguardarsi come gruppo comporta la letale esposizione, a turno, di almeno uno di loro o di tutti. Il maligno timore della prigione, dell’essere scoperti, di quell’antico e lontanissimo concetto di verità che ormai sfugge di mano allo show, provoca ripetutamente durante questi minuti d’agonia e di sconforto continui, profonde fratture in una santa alleanza che, per auto-difendersi istintivamente non ha che la carta della morbosità. Ogni volta ricucirle richiede un dispendio di energie di cui nemmeno più lo spettatore dispone: come quando Asher difende Annalise e si scaglia contro Connor accusandolo di essere il responsabile della morte di Wes o Connor rivela la verità e Laurel riesce sinceramente a suggerire solo di togliersi la vita. Le parole arrivano dritte in faccia come pugnali volanti, e benché comodamente abituati al veleno che circola, in realtà forse non ci abitueremo mai alla cattiveria che il dolore è in grado di far germogliare.
Il tempo scorre ed ancora una volta è imperativo trovare il modo di discolparsi per andare avanti: per la sopravvivenza Annalise decide di incolpare Wes di tutto, sia della morte di Sam che di quella di Rebecca, scendendo a compromessi con questa ignobile menzogna solo perché “Wes avrebbe voluto così.” Si gioca ancora sul filo del rasoio tra morale e sopraffazione totale della tendenza a continuare a vivere, nonostante tutto. Non c’è battito di ciglia, sguardo di disapprovazione o orazione che tenga, la decisione è presa, e si vive così infangando il prezioso ricordo di una persona morta che assurge, pur dopo la morte, alla figura del puro eroe della vicenda.
Nel frattempo però noi perdiamo il lucido controllo sulla possibilità di discernere il giusto dallo sbagliato, il bene dal male, poiché tutto viene filtrato attraverso la lente della sceneggiatura: chi sono i buoni e chi i cattivi non lo decidiamo sicuramente noi da questo lato dello schermo, tant’è vero che non ci abbiamo messo che un attimo a puntare il dito contro la Atwood, nonostante si sia rivelata essere innocente, ma si rifiutiamo di imputare anche la sola minima colpa ad Asher che investe la Sinclair o a Laurel che compra una pistola per uccidere Charles Mahoney. Ci hanno insegnato a giustificarli e per quanto possiamo ricamare un personale parere, in questo universo funziona semplicemente così, anche se responsabili di aver causato del male, solo i buoni hanno il diritto di poter andare avanti.
Finalmente alla fine dell’episodio, della stagione (e, metaforicamente parlando, della vita di Wes) Annalise riesce chiaramente a riconoscerlo come suo figlio: un monologo vivido e toccante, che tuttavia non cancella dalla nostra mente e dal nostro cuore quella piccola insinuante accusa: “Avresti potuto comunque fare di più…”
Questi 7 mesi d’attesa li cavalcheremo sull’onda della curiosità, come sempre, relativamente al movente dell’uccisione di Wes da parte del padre di Laurel che, imperativamente, assumerà nella quarta stagione un ruolo forse molto più centrale.
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