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The Man in the High Castle: recensione della seconda stagione

“Poi ci ho pensato un minuto e mi sono detto, un momento! Immagina che hai fatto il tuo dovere e che hai mollato Jim; ti sentiresti meglio di adesso? No, mi rispondo, mi sentirei male, proprio come adesso. Beh, allora, mi dico, a che serve imparare a comportarsi come si deve, quando a far bene si prova l’inferno, e fare il male viene così facile, e il risultato è poi lo stesso?”

Mark Twain, Le avventure di Huckleberry Finn

Sono queste le parole che Huck pronuncia mentre sta scendendo il Mississippi in compagnia di Jim, il bonario amico nero in cerca, come lui, di libertà. Ha appena mentito a due uomini a caccia di schiavi affermando che sulla zattera si trova suo padre, malato di vaiolo: il timore del contagio impedisce ai due di avvicinarsi. Huck è preso dai sensi di colpa perché nascondere uno schiavo è un reato, è un’azione giudicata riprovevole dalla società.

È tutto qui il senso di un’intera stagione di The Man in the High Castle: nella contrapposizione tra la morale umana e il cosiddetto diritto positivo, la legge fissata da norme. Sofocle per bocca della sua Antigone parlava di “leggi non scritte e innate”. “Non sono d’oggi, non di ieri, vivono sempre, nessuno sa quando comparvero né di dove”.

Man in the High Castle

Non si fatica certo a credere che oltre a Mark Twain anche Sofocle avrebbe figurato tra gli autori proibiti nel Reich ucronico che la serie ci prospetta. “Ciò che non si capisce può essere spaventoso” afferma l’anziano bibliotecario introducendo con reticenza il ministro del commercio giapponese Tagomi alla lettura di libri proibiti: la conoscenza dischiude la mente al dubbio, alimenta le domande e fa scaturire in noi il discernimento. È così che il piccolo Buddy, dopo aver ascoltato Joe Blake pronunciare le parole contenute ne Le avventure di Huckleberry Finn si pone il problema: “E Jim? Come può essere buono se è nero?”.

Questa seconda stagione scava nelle viscere della distorta morale nazista, ne mette in luce tutte le discrasie e le contraddizioni e lo fa attraverso le vicende degli uomini che ne compongono la società. Vicende che non necessariamente coincidono con la storyline principale che, come avevamo già messo in luce per la prima stagione, spesso pecca di lungaggini e sviluppi poco interessanti.

Per il Reichsminister Heusmann la morte di milioni di persone è un valido prezzo perché “Questa guerra sarà terribile, sì. Ma sarà l’ultima guerra. E quando sarà finita avremo un mondo unito e in pace per la prima volta nella storia dell’umanità”. Il nazismo forse è stato anche questo: la lucida follia di uomini disposti al sacrificio più importante, quello di vite umane, in nome di un’ideologia, in nome di quell’insensatezza fondata sul credere -sull’aver bisogno di credere- che la loro disumanità trovasse senso nella veridicità di un’idea che era troppo tardi per rinnegare. Perché rifiutarne la validità avrebbe voluto dire ammetterne l’orrore.

Joe Blake, a differenza di suo padre, percepisce l’incongruenza che sta alla base di tale modo d’agire perché non fa mai del tutto suo il messaggio nazista, perché, come afferma lui stesso rivolgendosi alla fascinosa Nicole (Bella Heathcote) in “Detonation”, nono episodio della stagione: “Capisco la lealtà verso una persona, non verso una causa”. È questo suo dubbio che lo induce a non arrestare l’obergruppenführer Smith grazie al quale Heusmann sarà deposto e la guerra evitata.

Intrisi di “diritto nazista” sono invece tanto la moglie del vice Ministro dell’informazione del Grande Reich, Lucy Collins, impossibilitata ad avere figli, tanto il primogenito di John Smith, affetto da distrofia muscolare. Entrambi pronunciano la stessa parola, riferendosi a loro stessi: “difettoso”. Nella perversa ideologia di purezza ariana non può esserci posto per l’infertilità e la malattia genetica. I due personaggi, privi di un’alternativa alla logica nazista, immaturi vittime della società, non possono che vedere “qualcosa di sbagliato” in loro. Il perverso rispetto della legge impone al giovane Thomas Smith un’unica soluzione: consegnarsi alle autorità andando incontro a un destino di morte. Questa è la forza di un’ideologia -non corroborata da umanità e senso critico- in nome della quale si è disposti perfino al sacrificio di sé stessi.

Man in the High Castle

La disperazione della madre è il grido straziante di chi aveva anteposto il sentimento più nobile, l’amore, a qualunque valore civico. Quell’amore per un figlio che scardina le certezze di John Smith, un meraviglioso, anche in questa season two, Rufus Sewell: “Mi sono reso conto che tutto si riduce a una cosa sola: la famiglia. […] La forza di un uomo si misura in base alle persone delle quali si circonda, […] della famiglia che ha giurato di proteggere. Qualunque forza possieda la riceve da loro. E per loro deve essere pronto a dare tutto”. È questa umanità nuova, riscoperta nel dolore della malattia del figlio, che altera irrimediabilmente le convinzioni di fedeltà allo Stato dell’obergruppenführer. E siamo certi che se una terza stagione vi sarà, John avrà modo di dimostrare il suo cambiamento.

Nel cammino di tutti questi personaggi si inserisce e si impone –quasi mai però a livello recitativo- una figura: “Anche qualcosa di imperfetto, può essere bellissimo” afferma Juliana facendo riferimento alla pratica giapponese del Kintsugi che consiste nel riparare il vasellame mettendone in risalto le ferite con una finissima patina d’oro e generando, nell’ordito delle linee che ne deriva, un oggetto unico e originale.

È lei la costante dei due mondi. Lei che mantiene la sua integrità al di là di qualsiasi schieramento. Se, come afferma l’Uomo del Castello “la maggior parte della gente è diversa a seconda che abbia la pancia piena o che sia affamata, al sicuro o spaventata” Juliana sente, come l’Antigone di Sofocle, quella spinta ad agire seguendo una morale diversa, tutta interiore, e fa sua la scelta di Huckleberry Finn: “Sono restato lì che non sapevo che fare. E allora ho deciso che non mi importava e avrei fatto sempre quello che mi andava”.

Man in the High Castle

Se George Dixon, membro della Resistenza, non esita minimamente a condannare a morte un ragazzo, solo perché nazista, arrivando addirittura ad affermare “se vogliamo batterli dobbiamo essere peggiori”, Juliana vede l’umanità, a volte solo potenziale, in ogni persona che si para sulla sua strada e antepone la vita a qualunque ideologia. Lo fa salvando Joe Blake al termine della prima stagione, lo fa ora salvando l’obergruppenführer Smith e suo figlio. È il senso di umanità che in fin dei conti vince su tutto. Come afferma l’Uomo nel Castello: “Milioni di persone continueranno a vivere grazie alle scelte che tu hai fatto, grazie a quello che c’è di buono in te, Juliana. Un atto spontaneo di amore e speranza. Ecco su cosa ho scommesso.” Ed è su questo, forse, che dovremmo scommettere tutti noi. Perché il senso di umanità è l’unica salvezza dalle storture dei Pensieri Forti che tanto male hanno prodotto nel secolo scorso. The Man In The High Castle ci lancia questo monito. Noi dovremmo impegnarci a farlo nostro.

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