
The Leftovers e l’attesa di un nuovo messia: la recensione dell’episodio 3.01
Non c’è bisogno di essere credenti o meno, cattolici o atei, religiosi o agnostici per riconoscere che la resurrezione (vera o presunta lo lasciamo alla fede personale di ognuno) di Gesù ha rappresentato un momento cruciale nella storia dell’umanità. Il racconto del ritorno dalla morte di colui che i suoi discepoli hanno chiamato Figlio di Dio ha dato forza ad un messaggio dirompente per un’epoca, in cui i concetti di uguaglianza e fratellanza erano inconcepibili chimere. La nascita del Cristianesimo ha contribuito indubbiamente a indirizzare la storia successiva, anche senza voler avventurarsi in lunghe e complesse disquisizioni storiche. E, d’altra parte, come poteva essere altrimenti? Come potrebbe ancora oggi essere altrimenti se una nuova resurrezione avvenisse? Se un nuovo messia apparisse, dopo una serie di eventi inspiegabili che ne hanno preannunciato in maniera criptica l’avvento? Se una lunga attesa avesse infine il suo compimento?
Credere comunque a costo di ogni solitudine
Fino a quando si può credere nella promessa di un futuro sempre rimandato? Quale prezzo si è disposti a pagare per non rinunciare alla propria fede? Ci si può condannare ad un volontario martirio pur di non essere dei novelli Pietro che rinnegano tre volte prima del canto del gallo? Fin dai tempi dell’indimenticabile Lost, queste domande intrise di una religiosità universale e non solo prettamente cattolica sono state presenti sottotraccia nei lavori di Damien Lindelof e The Leftovers non si è mai sottratto a questa regola non scritta.
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Un esempio illuminante era la stessa sigla della passata stagione, che riprendeva i dipinti rinascimentali con personaggi ascesi al cielo ed altri condannati ad un inferno sulla Terra. Il Santo Wayne nella prima stagione, il lettore delle impronte della mano nella seconda, i Guilty Remnants con la loro muta condanna delle illusioni terrene avevano incarnato in modo diverso il bisogno pressante di quella spiritualità spontanea che un fenomeno tanto inspiegabile come la Dipartita del 2% della popolazione mondiale aveva fatto nascere. Perché anche il dolore più atroce della scomparsa di una persona cara diventa più tollerabile, se viene visto come il segno materiale di una promessa ultraterrena che sta per avverarsi.
Ed è questo il senso di una intro ambientata in un piccolo paese perso in un deserto anonimo, dove una famiglia dapprima compatta si arrampica ogni notte sul tetto della sua piccola casa nell’attesa che si compia proprio quella dipartita che più di un secolo dopo è avvenuta senza che nessuno la aspettasse speranzoso. Ma quell’evento non arriva, quella data è sempre spostata con saccente convinzione, quel salire la scala traballante alla luce della Luna è sempre seguita da una mesta discesa tra gli sguardi beffardi di chi non aspettava altro.
Una chiesa che si svuota, una famiglia che si divide, una veste bianca che si sporca di pioggia e fango in attese sempre più lunghe e sfiancanti. Pochi rimangono uniti dalla delusione di non essere compresi e dalla paura di essere davvero quei pazzi di ci tutti ridono. Ma se, invece, avessero sempre avuto ragione loro? Se la loro fede ostinata avesse solo stimato male il tempo dell’avvento? Ci si potrebbe dimenticare di loro abbandonandoli in una chiesa deserta o cancellandoli in una esplosione colpevole come avviene ai Guilty Remnants? Se fossimo stati noi a non capire nulla e l’oblio a cui li abbiamo condannati un modo per non dover guardare in faccia i nostri errori?

Una pace tanto serena quanto fragile
Smettere di interrogarsi sulla fede ed accettare che le cose sono quel che sono sembra essere stata la scelta migliore per raggiungere un felice equilibrio. Il salto temporale di tre anni nasconde tutti i passaggi intermedi, ma ci trasporta in una Jarden dove il miracolo è già avvenuto. Kevin e Nora sono più uniti che mai e si supportano a vicenda nel dirigere il corpo di polizia della piccola cittadina texana, in cui Matt e Mary crescono il figlio Noah nella serenità di una chiesa sempre piena che pende dalle labbra del reverendo. L’inquieto Tommy ha superato i suoi traumi ed è ora il più affidabile dei poliziotti al comando di Kevin, mentre anche una Jill in partenza per il campus sorride allegra. Persino John e Laurie hanno sono andati oltre i loro problemi e, con grande sorpresa, fanno coppia fissa truffando a fin di bene persone che hanno bisogno di un finto santone per fare pace con i propri demoni interiori. Un idillio che tocca il suo culmine nella festa a sorpresa per Tommy dove sotto al portico tutti possono raccontarsi aneddoti bevendo birra come se nulla al mondo potesse turbarli.
Come se non fosse tutto una grande finzione. Perché nessuno sembra preoccuparsi che Erika e la piccola Lily non ci sono più. Perché Mary ha deciso di lasciare Matt, nonostante l’amore incondizionato che lui ha sempre nutrito per lei restandole accanto durante i tre anni di coma. Perché un’ombra inquieta continua a spuntare fugace nello sguardo di Nora. Perché basta il ritorno inatteso del redivivo e furioso Dean, con una teoria strampalata sui cani che si sostituiscono agli umani, per far riemergere gli spettri di Mapleton. Perché Kevin non ha dimenticato chi ha ucciso e quelle colpe vuole ancora espiare, provando a suicidarsi stringendo un sacco di plastica intorno alla testa. Perché un battesimo può diventare una rissa tra opposti fanatismi.
Soprattutto, perché mancano solo due settimane ad un anniversario che molti credono sia un nuovo inizio. Il momento in cui una promessa da lungo attesa verrà mantenuta e magari un nuovo messia capirà chi è. Qualcuno che non ha ancora compreso quanto importante sia quello che gli è successo. Qualcuno che non riesce ad accettare di essere il protagonista di un nuovo vangelo. Di un libro che Matt, Michael, John stanno scrivendo per lui e su di lui. Qualcuno che è Kevin.

Il futuro che sarà in un finale alla Lost
E, se invece fosse tutto ancora una volta una bugia? Se Kevin avesse ragione e non fosse quel messia che Matt e gli altri credono? Se la storia dell’attesa inutile della donna sul tetto si ripetesse uguale? Forse Kevin non è quel messia o, forse, lo è ma il suo messaggio non è quello che tutti speravano che fosse, ma qualcosa da dimenticare cancellando ogni legame compreso il proprio nome. La Sarah che vediamo raccogliere bianche colombe da portare ad un monastero, perso nel nulla di una terra tanto vasta quanto straniera, non è altri che una Nora invecchiata e dallo sguardo indurito da quello che possiamo intuire essere un passato traumatico. Ma se davvero è così, allora dobbiamo accettare che Lindelof abbia deciso di citare se stesso e rubare a Lost l’idea del flash forward. Un salto repentino e imprevisto in quel che verrà dopo. Uno sguardo su un domani che dovrebbe aiutarci a immaginare cosa avverrà dopo quello che vediamo nel presente. Ma che invece fa solo sorgere altre domande oltre a quelle che infestano questa recensione piena di punti interrogativi.
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The Book of Kevin apre la terza e ultima stagione di The Leftovers con una premiere che cattura lo spettatore, seminando dubbi e domande che aspettano risposte che si spera la serie riuscirà a dare. Perché va bene essere ammaliati dalla regia, dalla fotografia, dalla recitazione, dalla profondità degli argomenti, ma alla fine la richiesta di ogni spettatore agli autori si riduce a una sola: rispondete, per favore.
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