
The Killing: Recensione dell’episodio 3.10 – Six Minutes
… Silenzio. Ansia. Timore. Oppressione. Tristezza. Sconforto. E ancora silenzio e riflessione tra un’emozione e l’altra. Questo è il decimo episodio di The Killing che raggiunge vette mai toccate nelle stagioni e nelle puntate precedenti. A Seattle non piove da qualche episodio, ma è meglio non aggravare ciò che ci viene mostrato con lacrime che scendono dal cielo, perché ne abbiamo già abbastanza noi spettatori da versare su avvenimenti che ci lasciano del tutto impotenti e disarmati davanti allo schermo, con il calore che sale al cervello durante l’infinita camminata di Ray Seward verso il patibolo, senza parole come se fossimo davvero lì e con il fiato sospeso sperando che da un momento all’altro potesse succedere qualcosa che avrebbe potuto salvare la vita a quel prigioniero che durante queste dieci puntate abbiamo imparato a conoscere. E abbiamo approfondito la sua conoscenza soprattutto in questa puntata che è ambientata interamente in carcere ed il cui minutaggio è basato prevalentemente sui dialoghi tra Ray e Sarah. In questi c’è un continuo alternarsi di momenti di reciproca fiducia (c’è qualche scambio di battute su esperienze comuni con i reciproci figli) a momenti di diffidenza visto che Ray all’inizio pare non dire tutta la verità alla detective e questo la manda in confusione e la fa vacillare: dopo aver lottato tanto vorrebbe scappare e abbandonare tutto e l’avrebbe fatto se non fosse stato lì Holder a convincerla a non desistere, a non scappare sempre di fronte ad ostacoli di questo tipo, altrimenti in seguito ci sarebbe stata troppo male. Saggio Stephen che dà buoni consigli (ormai i due colleghi si sostengono reciprocamente di fronte ad ogni difficoltà), ma che continua a bere e a soffrire per la morte di Bullet, finché va nel cimitero della prigione che ospita più di 300 carcerati senza nome (come sempre l’ambientazione rispecchia gli stati d’animo dei personaggi) e sfoga tutta la sua frustrazione, la sua rabbia e la sua profonda tristezza lanciando a terra lattine di birra.
Anche noi come Linden rimaniamo confusi di fronte all’atteggiamento di Seward nel momento in cui sembra voler far credere di essere il killer di sua moglie, tesi sostenuta dalle parole di Adrian, che aspetta in sala d’attesa di poter vedere per l’ultima volta sua padre, che dice di averlo visto in casa “quella notte”. Allora dove sta la verità? Tra convinzioni che crollano e disorientamento, anche noi non sappiamo più a cosa credere. Ma poi ecco la realtà sentita direttamente dalla bocca di Ray: non voleva un figlio e certamente non è stato un buon padre né un buon esempio (per questo ha il timore di incontrare suo figlio e continua a farlo aspettare in sala) però ci tiene a lui e quella notte in cui era andato via di casa era tornato indietro proprio per prendere Adrian e portalo con sé. Fu così che trovò sua moglie morta. Quindi ecco la definita verità, quella che Linden aspettava che lui le dicesse: Seward non è un santo avendo comunque compiuto dei crimini in passato, ma sicuramente non è l’assassino di sua moglie, ragione per cui è stato condannato a morte. E per questo la nostra Sarah deve combattere contro il suo senso di colpa e tenta, invano, di far avere una sospensione a Ray, mentre le ultime ore prima dell’esecuzione passano inesorabilmente e il tempo sta per scadere.
Noi quelle ore e quei minuti che separano Ray dall’impiccagione li sentiamo tutti, pesanti, duri, crudi, reali. Sì perché, come avevo già detto in una precedente recensione, tutto quello che ci viene mostrato in The Killing e il modo in cui registi e sceneggiatori lo fanno è sempre molto realistico (la realtà non viene distorta) e quindi ci si trova davanti ad avvenimenti potenzialmente veri e di conseguenza di una autenticità che proprio perché vicinissima alla realtà ti fa stare ancora peggio rispetto alla visione di eventi non del tutto genuini. Ed infatti non c’è spazio per nessun lieto fine: quando finalmente Linden convince Ray ad incontrare suo figlio per lasciare in lui un ricordo positivo, ecco che è troppo tardi, non c’è più tempo e le guardie carcerarie, tra i pianti di Sarah e gli urli di Ray, non permettono eccezioni, nemmeno di fronte ad un uomo che sta per morire. Per fortuna, grazie alla detective, il prigioniero riesce a vedere suo figlio da lontano attraverso una finestra. Bisogna dire che oltre alla bravura e alla profondità dell’interpretazione di Peter Sarsgaard (bravissimo durante l’ultima camminata) anche Mireille Enos e Joel Kinnaman sono sempre ottimi ed in parte, compreso Rowan Longworth, quel Michael “Osservatore bambino” di Fringe.
Ma la cosa più cruda e brutta da vedere è scoprire a cosa si riferisce il titolo. “Six Minutes” per cosa? Io devo essere sincera, ovviamente si era già capito, ma ho sperato fino all’ultimo che fossero i minuti mancanti all’esecuzione prima che qualcuno portasse delle prove per sospendere la condanna a morte. Invece niente. Se il patibolo non è ben settato a seconda del peso del condannato, egli ci impiega ben 6 minuti prima di morire soffocato. Ray negli ultimi giorni ha perso peso e non ha mangiato abbastanza per recuperarlo.
Ecco quindi un episodio doveroso, dedicato ed ambientato completamente nella prigione. Per una puntata si mette da parte l’indagine sul vero assassino delle ragazze e ci si concentra esclusivamente su Seward nel giorno della sua condanna a morte. Episodio che unisce anche i due archi narrativi, quello del carcere e quello di Linden ed Holder, che fino ad ora erano rimasti separati. Le parti di Ray sono ben inframmezzate da altrettanti momenti bui e cupi che descrivono altre situazioni ugualmente malinconiche: la sensazione di impotenza e il senso di colpa di Sarah, la rabbia di Stephen e la lunga e vana attesa di Adrian. Ora che purtroppo Ray ha pagato per un crimine che non ha commesso, bisogna trovare il vero assassino e c’è il doppio season finale per farlo.
3.10 - Six Minutes
Soffocante
Valutazione Globale