
The Dinner: recensione del film con Richard Gere
Titolo: The Dinner
Genere: Drammatico
Anno: 2017
Durata: 120′
Regia: Oren Moverman
Sceneggiatura: Oren Moverman, Herman Koch (romanzo)
Cast: Richard Gere, Laura Linney, Steve Coogan, Rebecca Hall
Decidere di trasformare un romanzo in un film con il linguaggio della letteratura è un’operazione non priva di qualche rischio. Il regista Oren Moverman ha scelto l’omonimo best-seller olandese di Herman Koch come pretesto per ciò che sarebbe potuto diventare un thriller psicologico, simulando (non so quanto fedelmente, non avendo letto il libro) una struttura letteraria per la sua costruzione cinematografica.
L’esperimento però non funziona, perché il lento svolgersi della psicologia dei personaggi se ha un senso sulla pagina, sullo schermo pare un azzardo. A metà film non ci è ancora chiaro a cosa stiamo assistendo. Lo straniamento, operato tecnicamente con sbalzi temporali, cambi cromatici, montaggio altalenante, lunghi monologhi apparentemente inconcludenti, funziona. Non si può dire però che tale tecnica contribuisca ad entrare in empatia col protagonista, come invece sembrerebbe voler fare. Migliore da questo punto di vista è stato l’adattamento dello stesso romanzo fatto da Ivano De Matteo con il film I nostri ragazzi (2014).
Alla cena a cui fa riferimento il titolo partecipano due fratelli con le rispettive mogli.
Il primo è Paul Lohman, interpretato da un efficace Steve Coogan, che scopriamo essere matto. Lo si capisce però solo a film inoltrato, quando il senso di identificazione coi protagonisti dovrebbe ormai renderci partecipi dei fatti che si svelano via via sempre più drammatici. Si assiste invece a una conduzione fredda, estraniante, appunto. Della follia di Paul si capisce la gravità dopo aver assistito ad una sua lezione davanti a un’aula vuota sul senso della battaglia di Gettysburg, uno degli scontri più sanguinosi della Guerra di Secessione, in cui persero la vita circa 50 mila soldati americani.
La filosofia di Paul è di un relativismo che sfocia nel cinismo. Ex professore di storia, nutre la sua pazzia con una sorta di disgusto per i suoi stessi studenti. Disgusto che non ha per il figlio, che forse un po’ gli somiglia. Man mano che il film avanza si scopre la dinamica familiare: il perché del dramma che ha scatenato la follia di Paul, lo stato di alienazione del figlio adolescente e la determinazione feroce della moglie (un’ottima Laura Linney).
Entra poi in scena il fratello di Paul, Stan (un rigido Richard Gere) uomo politico di qualche levatura morale, impegnato come si vedrà in battaglie civili. È lui ad occuparsi della malattia del fratello, e non solo di quella. Ricadono sulle sue spalle anche le preoccupazioni per i fatti cruenti che li coinvolgono e che li vedono lì riuniti, mettendo a rischio la sua candidatura a governatore. A chiudere il quartetto di commensali c’è Katelyn (Rebecca Hall) la seconda moglie di Stan. Anche per il suo personaggio vale quanto già detto: scopo del film (e presumibilmente anche del romanzo) è svelarne l’umanità o disumanità, man mano che la storia volge verso la conclusione.
Il quadretto familiare ha la sua lussuosa cornice in un ristorante a cinque stelle, dove ogni portata segna un capitolo della storia, come nel romanzo.
La segmentazione in capitoli che dall’antipasto al dessert serve sul piatto dello spettatore pietanze succulente (minuziosamente descritte da un petulante maître) trasforma in metafora lo sviluppo drammaturgico e non giova alla già segmentata narrazione per flashback.
Più di qualche volta si ha l’impressione che teatralità e staticità siano una scelta stilistica determinante, alcune scene familiari ricordano gli interni di Ingmar Bergman, fotografia e movimenti di camera il primo Lars Von Trier, il dettaglio dei cibi Il Pranzo di Babette. Tutto contribuisce, come l’ambientazione invernale, a trasferirci mentalmente in quel nord Europa pragmatico e glaciale in cui ha origine il romanzo, il luogo peggiore dove perdere la testa.
Le riflessioni che il film suggerisce sono di critica sociale.
Presentando un politico con il suo codazzo di leccapiedi, o i social network come ricettacolo di tutte le perversioni, già possiamo farcene un’idea, ma è soprattutto la questione di come si possa ricostruire un nucleo familiare in un contesto così spregiudicato il punto centrale. Cancellare e poi negare i propri peggiori istinti servirà a resettare la nostra esistenza e quella di chi ci sta vicino?
E’ alle nuove forme di conformismo che vorrebbe ribellarsi Paul, non riuscendoci, riversando su Stan, che in qualche modo le rappresenta, rabbia e frustrazione. E convergendo queste nella follia.
Gli spunti di riflessione sono di fatto interessanti, vi è una scelta sofisticata di fotografia e sceneggiatura. Manca però il gusto del racconto, rendendo quasi marginale il nucleo principale della storia. L’effetto sorpresa non c’è e il thriller perde quasi d’interesse. Potrebbe interessare chi ha apprezzato il romanzo, gli altri spettatori non si aspettino un film d’azione.
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