Cast principale: Gugu Mbatha – Raw, Daniel Bruhl, Zhang Ziyi, Elizabeth Debicki
Quelli di Netflix, si sa, sono geniacci del marketing. E quelli della Bad Robot di J.J. Abrams non avranno la stessa ironia dei pubblicitari della rete streaming, ma non si fanno certo mancare idee originali in tema di marketing virale. D’altra parte, l’intero franchise di Cloverfield, per quanto diluito su molti anni, è vissuto di questo tipo di trovate come testimonia il sito dell’immaginaria Tagruato Corporation che lega i tre film della serie. E però alla lista di mai visto prima mancava quanto fatto per promuovere questo The Cloverfield Paradox: primo trailer rilasciato a sorpresa durante il Superbowl e film messo a disposizione già due ore dopo.
Dall’horror alla fantascienza senza troppa attenzione
Diretto dal regista nigeriano Julius Ohna, The Cloverfield Paradox arriva sugli schermi dopo una storia editoriale piuttosto travagliata che ha visto più volte cambiare sia le persone coinvolte nel progetto sia la storia e il titolo stesso del film (che inizialmente doveva chiamarsi The God Particle con riferimento al bosone di Higgs). Un percorso a ostacoli non è necessariamente sinonimo di una cattiva riuscita del prodotto finale, ma può comunque lasciare una qualche traccia visibile nel risultato ultimo. Come appunto avviene per questo film che sembra figlio di troppe idee cambiate in corso d’opera.
Confermando la struttura anomala della saga iniziata con Cloverfield di Matt Reeves nel 2008 e proseguita otto anni dopo con 10 Cloverfield Lane, il film si svolge nello stesso universo narrativo come è suggerito da alcuni particolari non immediati da cogliere e da un paio di scene dichiaratamente di collegamento al primo capitolo. Ma, se l’opera di Reeves riprendeva l’espediente di The Blair Witch Project applicandolo ad un monster movie e il successivo imboccava la strada dell’horror psicologico, The Cloverfield Paradox cambia totalmente registro andando a inserirsi nel consolidato genere fantascientifico.
Non è la fantascienza avventurosa dei viaggi stellari, ma quella claustrofobica e ansiogena dell’equipaggio chiuso in una stazione spaziale a combattere con un nemico mortale. Che l’avversario sia stato generato dagli stessi protagonisti tramite un esperimento sfuggito di mano è un’idea probabilmente figlia di una trama iniziale che voleva ispirarsi agli infondati timori che suscitò l’accensione dell’acceleratore LHC che avrebbe poi permesso la scoperta da premio Nobel del bosone di Higgs. Il problema insoluto è che questa idea costringe la sceneggiatura a confrontarsi con gli infiniti paradossi legati ai viaggi nel tempo che presentano sempre il rischio di cadere in contraddizioni fatali o in catene di eventi che è difficile collegare coerentemente. Perché ammettere la possibilità di violare le leggi della fisica non autorizza automaticamente chi scrive la storia a lasciare che i personaggi agiscano senza una logica apparente.
Un film che non sa cosa vuole essere
The Cloverfield Paradox, in verità, parte anche piuttosto bene. L’ambientazione in un futuro prossimo (il 2028) in cui il mondo è al collasso e sull’orlo di una nuova guerra globale per l’esaurirsi delle risorse energetiche disegna un fondale credibile su cui scorrono bene l’ansia e la tenacia di un gruppo che è consapevole di quanto importante sia la missione affidatagli. Riuscire o fallire non significa doversi chiedere cosa è andato storto per poi poter riprovare, ma piuttosto è il confine che separa la vita dalla morte, il continuare della specie umana dalla sua estinzione. Finché il film decide di concentrarsi su questa lotta che comunica la vitale importanza di quell’acceleratore nello spazio, la pellicola funziona con una sceneggiatura che comunica l’importanza di quel che sta avvenendo, tenendo alta la tensione senza bisogno di ricorrere a trucchi abusati.
Anche il cast contribuisce ad esplicitare questo messaggio mostrando la determinazione di Kiel (Daniel Oyelowo), la sicumera di Schmidt (Daniel Bruhl), lo spirito di sacrificio di Ava (Gugu Mbatha – Raw), la fede di Monk (John Ortiz), la devozione di Tam (Zhang Ziyi), l’ironia sdrammatizzante di Mundy (Chris O’Dowd), il nervosismo crescente di Volkoff (Aksel Hennie). Modi diversi di farsi carico del destino del mondo pur nella stessa consapevolezza di quanto fondamentale sia il compito di ognuno.
The Cloverfield Paradox smette, purtroppo, di funzionare quando da questa tematica è costretto a discostarsi per l’evolvere degli eventi. Da questo momento, infatti, il film sembra non avere più chiara quale deve essere il suo registro stilistico. A scene horror che omaggiano in maniera blanda un classico come Alien o si rifanno al più recente Life, si seguono momenti in puro stile trash che sono evidenti riferimenti all’umorismo nero del Sam Raimi versione La Casa e al suo sequel televisivo Ash vs Evil Dead. Non mancano, neanche, eroismi e passeggiate spaziali in stile Gravity o messaggi da una dimensione all’altra già visti in Interstellar. Tutte idee che, prese singolarmente, non sono neanche cattive o realizzate male (ulteriore esempio ne è il personaggio interpretato da Elizabeth Debicki), ma che messe insieme non riescono ad amalgamarsi finendo per dare l’impressione di un film che sia stato scritto ammassando stili diversi senza poi sceglierne uno.
Se e quanto abbia influito su ciò il complicato processo produttivo è difficile dirlo, ma forte è il dubbio che la fretta di arrivare ad un conclusione positiva abbia costretto gli autori a sorvolare su troppe cose.
Netflix e le ciambelle senza buco
Con The Cloverfield Paradox Netflix voleva probabilmente aggiungere un’altra tacca al suo bastone dei successi, ma stavolta la lama ha perso il filo e difficilmente il film sarà ricordato per la sua qualità piuttosto che per il modo in cui è arrivato sugli schermi. Se è vero che non tutte le ciambelle riescono con il buco, questa volta è toccato a Netflix sfornare un dolce riuscito male. Non perché il film non si lasci guardare: il ritmo è, infatti, piacevole e la resa scenica ben curata. Ma troppe sono le debolezze di una storia raffazzonata gestita a fatica da un regista inesperto che non riesce a supplire con qualche trovata originale alla zoppia della sceneggiatura. Il punto di maggiore pregio del film diventa, quindi, il suo finale che chiarisce come la storia si inserisce nella saga di Cloverfield di cui va visto come capitolo zero. Uno spunto interessante per il futuro, ma insufficiente per il presente.
The Cloverfield Paradox sarebbe potuta essere una piccola pietra miliare per Netflix che aveva l’opportunità unica di convincere il pubblico che dalla rete ci si deve sempre attendere gradite sorprese anche quando tutto tace. Il risultato rischia, però, di essere l’opposto di quello auspicato perché più che sembrare un regalo inatteso al suo pubblico, The Cloverfield Paradox assomiglia troppo ad un qualcosa di cui Netflix voleva liberarsi al più presto. E si capisce pure perché.
In principio, quando ero bambino, volevo fare lo scienziato (pazzo) e oggi quello faccio di mestiere (senza il pazzo, spero); poi ho scoperto che parlare delle tonnellate di film e serie tv che vedevo solo con gli amici significava ossessionarli; e quindi eccomi a scrivere recensioni per ossessionare anche gli altri che non conosco