
The Assassination of Gianni Versace: cenere eravamo e cenere ritorneremo, recensione episodio 2.09
The Assassination of Gianni Versace conclude la sua folle corsa con un finale dal sapore agrodolce. In queste nove puntate abbiamo esplorato a fondo l’anima tormentata di un protagonista decisamente fuori dagli schemi, che ci ha inquietato e affascinato allo stesso tempo.
Andrew Cunanan è stato un perfetto capro espiatorio.
Prima dell’inizio del progetto, Ryan Murphy aveva anticipato che il tema principale della serie non sarebbe stato la celebrazione di un’icona, Gianni Versace, ma il racconto di un crimine che la società americana non ha voluto punire perchè considerato ambiguo. Da qui la decisione di intitolare la serie in questo modo, senza però inserire il nome di Andrew per evitare di glorificare indirettamente il suo operato.
Il caso Cunanan è stato effettivamente uno dei più grandi scandali dell’America degli anni Novanta. Un fallimento totale.
Murphy è stato molto chiaro in questo senso, dichiarando che l’assassinio Versace si sarebbe potuto evitare se solo la polizia avesse avviato un dialogo con la comunità gay. Cunanan aveva già ucciso quattro uomini, tra cui il costruttore Lee Miglin e i giovani Jeff Trail e David Madson, tutti omosessuali, dichiarati e non. Secondo Murphy, se le vittime fossero state eterosessuali probabilmente le forze dell’ordine avrebbero catturato il colpevole prima che uccidesse lo stilista. In breve, si può dire che l’omofobia dilagante di quegli anni ha completamente deragliato le indagini, mandando a morte degli innocenti.
Una caccia all’uomo fallita, una sconfitta su tutta la linea per l’FBI.
Uno spiacevole episodio di cronaca per gli Stati Uniti, ma non solo. Seguendo con interesse la serie in ogni sua parte infatti, mi sono reso conto che Murphy ha voluto raccontare molto più di questo. The Assassination of Gianni Versace è una delle poche serie in cui il protagonista è il carnefice, non la vittima, per un motivo ben preciso. Andrew rappresenta tutte quelle voci inascoltate, quelle minoranze ignorate, quelle menti sensibili che fuori controllo diventano inevitabilmente pericolose. La sua è una storia di dolore, un dolore che ha un significato. E quando il dolore ha un significato parla, dice molto di sé, di te.
In quest’ultimo episodio, Alone, vari personaggi apparsi nel corso dello show si alternano sullo schermo: la vedova Miglin, il padre di David, i fratelli Versace, Antonio, la madre e il padre di Andrew, l’amica Lizzie e altri ancora. Ma lo scambio più interessante è, a mio avviso, quello che avviene tra Ronnie (uno splendido Max Greenfield) e la polizia.
Ronnie racconta agli agenti che Andrew non si sta nascondendo ma, al contrario, cerca di farsi notare da un paese che non lo vede. Andrew è un vanitoso, vuole tutta l’attenzione per sé, e non è disposto ad assecondare i desideri di un mondo che non lo vuole, cosa che invece facevano molti omosessuali degli anni Novanta, sentendosi costantemente colpevoli di un crimine mai commesso. Si frequentavano, fingevano, si ammalavano e morivano ai margini di una società prevenuta, disposta sfavorevolmente nei loro confronti.
Questa recensione non vuole assolutamente essere l’apologia di un serial killer, ma non posso non pensare che se Andrew fosse stato ascoltato, amato e capito forse le cose sarebbero andate diversamente.
Eloquente, ben vestito e estremamente intelligente, Cunanan era qualcuno che aspirava alla felicità senza avere la minima idea di cosa fosse.
Le sequenze finali in cui Andrew viene finalmente trovato dalla polizia sono la prova finale del fallimento dell’operazione. Il ragazzo si suicida con un colpo di pistola prima di essere catturato. Passerà quandi alla storia come criminale mai arrestato dalle autorità.
È sempre presente il mito di Gianni Versace.
Dall’altra parte infatti si staglia la visione di un idolo come Gianni Versace, un personaggio molto decorativo nella serie alla fine dei conti, che con il suo genio e la sua bontà d’animo ha illuminato il mondo di quegli anni e smosso i cuori di molti. Entrambi, Gianni e Andrew, torneranno polvere da polvere che erano, come dice la Bibbia, ma al termine di esistenze profondamente diverse.
Decisamente più terreni i personaggi di Antonio D’Amico e Donatella Versace, che vediamo qui dipinti come rancorosi anche se certamente legati a Gianni. Comprese, ma a mio avviso non molto efficaci, le scene in cui Antonio viene ignorato pubblicamente come compagno di Gianni.
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Il significato di questa seconda stagione di American Crime Story è chiaro: dove non c’è dialogo, c’è violenza.
The Assassination of Gianni Versace insegna. Capire chi abbiamo vicino è il primo passo verso la civiltà e verso l’amore per la vita, di chiunque essa sia, a qualunque minoranza appartenga. Oggi fortunatamente la situazione della comunità omosessuale è differente. L’omosessualità non è più la condizione di una minoranza di persone che il resto del mondo ha tollerato. La stigmatizzazione dell’omosessuale come perverso, malato o comunque diverso è servita a definirlo. Proprio il paradosso dell’identità caratterizza l’intera storia del movimento omosessuale e grazie all’oppressione vissuta, le vittime si sono organizzate nel chiedere oggi diritti e spazi di riconoscimento.
Quella di The Assassination of Gianni Versace è una lezione di vita generale, per tutti. Lottare serve a definirsi, ma non tutti ce la fanno. La storia di Andrew e dell’assassinio di Versace è la storia di una mente fragile che non ce l’ha fatta.
Ma da ogni storia si può imparare a non ripetere gli stessi errori, a guardare avanti con più consapevolezza. Ed è quello che mi auguro questa storia sia riuscita a fare.
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