
The 100: Recensione dell’episodio 3.07 – Thirteen
Come si scrive una serie tv? A saperlo fare non staremmo qui (ma anche si, ché partecipare a questo sito di appassionati ci diverte eccome). Ma dopo anni e anni da spettatori voraci, qualcosina sul campo la abbiamo imparata. Ad esempio, che si può decidere di concentrarsi su pochi personaggi forti e inserirli in una unica storyline intorno a cui girano come satelliti minoritari altre storie secondarie. Oppure, al contrario, dispiegare con maestria un ventaglio di trame indipendenti facendo attenzione a bilanciare il minutaggio dedicato ai vari protagonisti. E poi ci sono gli autori davvero bravi che riescono a sorprendere il pubblico svelando improvvisamente che quelli che sembravano quadri separati sono invece tessere diverse di un unico mosaico, che sorprendente si svela agli occhi stupefatti di chi non riusciva a cogliere il tutto dal particolare. Con questo Thirteen Jason Rothenberg e il team di autori di The 100 dimostrano di meritare un posto in questa elitaria categoria.
La missione mistica nel deserto alla ricerca della fantomatica City of Light era apparsa nella passata stagione come una fastidiosa perdita di tempo prezioso e ritrovare Jaha come convinto succube di Alie, intento a convertire le folle distribuendo pillole esagonali come fossero ostie benedette, appariva come un incomprensibile fardello che la serie aveva deciso di portarsi appresso distogliendo l’attenzione dagli intrighi politici alla corte di Lexa. E, invece, l’amo lanciato nel finale dello scorso episodio, con Murphy torturato dall’enigmatico Titus (qualcuno faccia intervenire Amnesty International, che non passa episodio in cui non le prenda da tre anni a questa parte), riesce a far abboccare il più grosso pesce del fiume. Non solo offre l’occasione per mostrare cosa ha portato alla fine del mondo, ma chiude un anello inatteso collegando la mitologia dei Grounders con il passato dell’Arca, svelando quindi l’importanza capitale proprio di quella che era la storyline più debole. L’entusiastica accoglienza di questa efficace rivelazione non deve certo far dimenticare che l’idea di base è, in effetti, poco originale, dal momento che il concetto stesso di intelligenza artificiale porta fin dalla nascita le stimmate dell’ incontrollato timore che verrà un giorno in cui una futuristica tecnologia si rivelerà un insormontabile avversario del genere umano. Né, a cercarli con attenzione, mancavano indizi a favore di un legame ancestrale tra il ruolo di Heda e una qualche versione della City of Light: l’insistenza di Lexa sulla possibilità di parlare con lo spirito dei commander precedenti che richiama l’affermazione di Alie a Jaha sull’impossibilità di morire nella Città della Luce; la forte somiglianza tra il modo in cui sia Jaha che Lexa si astraggono dal mondo intorno, quando si siedono a meditar; la relativa rapidità con cui la civiltà dei Grounders si è riorganizzata, dopo la catastrofe nucleare, come guidata da una intelligenza superiore. Eppure le tempistiche della rivelazione e il modo in cui è stata preparata permettono di arrivarci attraverso passi misurati, che si seguono con un ritmo accelerato che impedisce allo spettatore di metabolizzare le informazioni che gli piovono addosso, per sorprenderlo con un colpo di scena finale che segna una svolta fondamentale della stagione.
Per quanto piacevolmente inattesa sia questa spiazzante verità, è innegabile che l’episodio colpisca soprattutto per lo strumento usato come lente rivelatrice. Lexa muore tra i rimpianti di Titus e le lacrime impotenti di Clarke. Che si sarebbe arrivati a questo evento era prevedibile, dati gli impegni di Alycia Debnam Carey sul set di Fear the Walking Dead. Ma quello che maggiormente susciterà l’ira del suo agguerrito fandom è sicuramente il modo rapido, e dopotutto deludente, in cui ciò avviene. Comandante indomabile che aveva saputo fronteggiare un tentativo di colpo di stato senza mostrare alcun timore, guerriera invincibile che aveva sconfitto il possente Roan di Azgeda, fiera condottiera che aveva saputo anteporre il bene del suo popolo al proprio interesse amoroso, Lexa muore uccisa a caso da un proiettile vagante sparato dal suo fidato consigliere, incapace di gestire un’arma che non ha mai usato. Eppure, questa morte dismessa non è priva di una sua coerenza. Ad uccidere Lexa è, infatti, la fede estrema nelle sue decisioni, il suo tentativo di cancellare una tradizione scritta nel sangue, il suo porsi al di sopra delle regole per riscriverle. Sono questi gli ingredienti che sobillano quell’astio represso nei suoi confronti, che porta Semet ad attentare alla sua vita davanti alla corte riunita e Titus ad ordire un maldestro piano per eliminare quella Clarke che le ha fatto dimenticare che l’amore è una debolezza. Invece, in quell’amore Lexa crederà fino alla fine, ringraziando il comandante della morte che a quella morte si può arrivare anche vivendo, invece che limitandosi a sopravvivere. Bravissima è la Debnam Carey a mostrare in questo epilogo del suo personaggio tutta la complessità di un carattere scisso tra il desiderio di normalità, dove non si è costantemente debitori verso un popolo intero, e la volontà di essere all’altezza di un ruolo tanto fondamentale. La struggente ultima scena tra le due amanti che non riescono a pronunciare mai quelle fatidiche parole ricalca un topos classico, ma è recitato così bene che quel may we meet again riesce a trasmettere tutto il dolore di una intimità tragicamente spezzata.
Quesiti che nascono, in fondo, da una sola triste certezza. Il mondo potrà anche essere finito per un errore involontario, causato da una programmatrice che ha creato una intelligenza artificiale incapace di comprendere il significato di essere umani, ma ciò che è venuto dopo è nato da altrettanta violenza sia nello spazio, dove un’intera stazione viene spazzata via solo per dare l’esempio, che in terra, dove una civiltà si fonda su una eredità di sangue. Che avesse ragione Alie dopotutto?
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Che bell’episodio e che bella recensione. The 100 è in grado di stupirmi sempre, anche con i suoi difetti e le su trame accelerate, questi sceneggiatori non hanno proprio paura di rischiare.
Mi dispiace tanto per Lexa, era un personaggio molto interessante e complesso e se ne sentirà la mancanza, è morta proprio a cavolo però……
La parte sull’intelligenza artificiale ma WOW… *_*
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Come temevo, quel figlio d’un Rothemberg ha fatto fuori il mio personaggio preferito. Comunque il bello di The 100 è anche questo: perfino un grande comandante, nonchè leader saggio e carismatico come Lexa può trovare la morte per una banale fatalità.
Goodbye Heda, porta una parte di te tra gli zombi.
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episodio incredibile, forse il migliore della serie…serie che è un continuo crescendo, meriterebbe molto più seguito…peccato per lexa bel personaggio (in tutti i sensi) ma era prevedibile facendo parte del cast di una serie “più importante”