
Sweet Tooth: la favola bella della speranza e del bene – Recensione della serie Netflix prodotta da Susan e Robert Downey Jr
Serviva proprio un’altra serie con la società crollata a causa di una pandemia quando stiamo (diciamolo sottovoce) ancora uscendo da una vera pandemia?
Basta sottolineare che sia tratta da un fumetto scritto molti anni prima del Covid per assolverla dall’essere l’ennesimo prodotto che prova a sfruttare il momento?
Domande sensate, ma che si dimenticano con la stessa fretta con cui si vedono gli episodi di Sweet Tooth. Perché di un’altra serie con pandemia, forse, se ne può fare a meno. Ma di una serie come Sweet Tooth, probabilmente no.


La favola che non ti aspetti
In comune con molti prodotti dalle premesse simili, Sweet Tooth ha l’idea di partenza del mondo collassato a causa di una pandemia che stermina quasi l’intera popolazione umana. Di diverso ha che, quasi in contemporanea con il diffondersi del virus mortale, arriva l’improvvisa e inspiegabile nascita di bambini ibridi uomo – animale. Proprio uno di loro è il protagonista Gus che, appena nato, viene nascosto al mondo dal padre o chi ne fa le veci che si rifugia in una baita sperduta tra le foreste del parco di Yellowstone. La beata serenità di Gus verrà sconvolta dalla morte del padre e dall’arrivo fortuito di cacciatori di ibridi. A salvarlo sarà il solitario Jepp che lo proteggerà nella sua ricerca della madre.
La breve sinossi precedente è sufficiente a comunicare il carattere fiabesco della serie prodotta da Susan e Robert Downey Jr per Netflix. Sweet Tooth è, in tutto e per tutto, una favola dai tratti fantasy e delle fiabe ha la struttura e i caratteri tipici. Le vistose ma per nulla spaventose corna da cervo e le soffici orecchie si uniscono al viso fanciullesco di Gus disegnando una maschera che è la definizione di carino e coccoloso. Il fisico imponente e i modi fintamente burberi di Jepp ne fanno il perfetto archetipo del gigante buono. L’apparenza minuta e il carattere determinato di Bear vanno a coprire la casella obbligatoria dell’eroina coraggiosa. Né sarebbe difficile identificare gli altri ruoli immancabili e i passaggi obbligatori del racconto secondo la descrizione magistrale di Vladimir Propp.
In verità, non serve spingersi in un’analisi tanto dotta per riconoscere la natura di Sweet Tooth. Basta, invece, affidarsi all’ottimismo incrollabile di Gus. Al suo costante senso di stupore. Alla capacità unica che ha di cambiare anche chi gli sta intorno semplicemente perché nessuno vorrebbe macchiare una purezza talmente immacolata da essere ormai una gemma unica.
A questa narrazione favolistica contribuiscono anche i paesaggi incontaminati che attraversa, le persone che incontra, gli oggetti che porta con sé e quelli che trova, le situazioni improbabili da cui esce quasi sempre vincitore contro ogni previsione razionale.
Sweet Tooth smette così subito di essere un’altra serie post – apocalittica per diventare la favola di un ragazzo prodigio che scopre un mondo distrutto dove si riescono ancora a trovare la poesia e l’eroismo, la bontà e il sacrificio, l’amicizia e la gioia di vivere. Una fiaba incantata da cui è immediato lasciarsi conquistare.
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La perdita dell’umanità
Come tutte le migliori favole, Sweet Tooth ha la capacità di rivolgersi ai ragazzi di adesso per parlare agli adulti di oggi e di domani. E di tematiche importanti ammantate della rassicurante dolcezza della favola è ricca la serie. A partire dal concetto, spesso sotteso a molte produzioni di questo genere, del virus letale come punizione finale di una natura stanca di essere vittima dell’uomo. La lussureggiante bellezza dei paesaggi ripuliti dalla presenza umana è il messaggio non scritto della vita che va avanti comunque perché dopotutto l’uomo era solo un irritante clandestino. Con l’aggravante che non ringrazia per il passaggio a bordo, ma pensa a come affondare la nave che lo sta traghettando.
Sweet Tooth mostra anche il collasso della civiltà non attraverso le classiche bande di predoni feroci, ma tramite la tranquilla accettazione della perdita di ogni solidarietà. Impressionante, da questo punto di vista, è il modo in cui i sopravvissuti gestiscono con burocratica efficienza e raggelante serenità le persone che si rivelano essere infette dal morbo. Nessun tentativo di curarle e nessuna empatia nei loro confronti. Al contrario, la dimostrazione che la vera vittima di una pandemia apocalittica non è l’uomo, ma l’umanità. Non le persone fisiche destinate a morire, ma quei comportamenti che hanno elevato l’essere umano emendandolo dalla bestialità istintiva del puro istinto di sopravvivenza.
Fino al punto di non riconoscere più alcun vincolo morale. Scagliandosi contro i più deboli ridotti a cavie da laboratorio per esperimenti dall’esito incerto che potrebbero salvare i pochi esseri umani rimasti. Un sonno della ragione che guarda alle differenze tra noi e loro piuttosto che alle somiglianze. Che dimentica che gli ibridi sono anche umani perché è sempre più facile e più comodo scagliarsi contro il diverso e appenderlo alla colonna infame. Il generale Abbott diventa solo l’ultimo esempio dei tanti che si innalzano sulle macerie facendo prevalere l’odio verso l’altro da noi. Ma è, invece, il dottor Singh a incarnare meglio il male che alberga là dove preferiamo non dover mai guardare. Per non scoprire i compromessi che saremmo disposti ad accettare pur di salvare noi e chi amiamo. Anche a costo di passare sopra ogni etica e ogni moralità.
Sweet Tooth indossa gli abiti colorati della fiaba per mostrarci che le vesti del re devono essere ricche e sgargianti per nascondere la cancrena che vedremmo se fosse nudo e potessimo guardare dentro il suo animo.
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Quel che resta del bene
Eppure, Sweet Tooth è come il suo protagonista Gus. Mantiene viva la speranza che tutto andrà bene comunque. Non perché il bene sia destinato prima o poi a trionfare. Ma piuttosto perché esisterà sempre qualcuno che quel bene si convincerà a fare. Che sia un inserviente di un centro di ricerca che decide di crescere un bambino affidatogli senza troppe spiegazioni. O un ex giocatore di football che ha cambiato idea e accoglie un bimbo smarrito. Una psicologa stressata che nell’apocalisse trova una nuova missione. O una ragazzina orfana che si allena ai videogiochi per combattere con la sua improbabile squadra di adolescenti in difesa degli ibridi. Un macchinista con il cervello a mezzo servizio, ma pronto a sacrificarsi. O una assistente di laboratorio rimasta fedele a una promessa fatta tanti anni prima.
Il bene è lì fuori, comunque. Basta crederci. Convincersi che ci si può allontanare dalla propria tana sicura scampando a pericoli che neanche sai immaginare. Accettare di pensarla in modi opposti, ma non lasciare che le opinioni diverse impediscano la nascita di un’amicizia. Scegliere di non limitarsi a proteggere il proprio posto felice, ma metterlo a disposizione di chi ne ha maggiore bisogno. Avventurarsi lì dove nessuno è mai arrivato alla ricerca di una cura per tutti e non solo per i pochi che ci sono più vicini. Stringersi in un abbraccio con sconosciuti perché sono come te e solo questo conta davvero.
Pubba su tutti, Jepp e Bear, Aimee e Birdie sono quel bene che resiste. In maniera spontanea. Senza quasi averlo scelto, ma solo perché è così che è giusto che sia. Consapevoli che magari il mondo intorno non è più fatto per loro perché appartengono ad una specie destinata ad estinguersi, ma convinti di dover lasciare la strada a quei miracoli come Gus. A quegli esseri ancora puri che non meritano di farsi carico delle colpe del passato.
Sweet Tooth è la serie di cui non sapevamo di aver bisogno. La favola bella che ci convince che, dopotutto, davvero, in un modo o nell’altro, andrà tutto bene.