
Swarm: una storia finta assolutamente vera – Recensione della miniserie di Donald Glover su Prime Video
Sovvertendo i canoni classici, il disclaimer che precede ogni episodio di Swarm avvisa lo spettatore che questa non è una storia di finzione. Di più. Anche se la serie creata da Donald Glover e Janine Naber non ha alcun personaggio reale, lo stesso annuncio avverte che ogni riferimento a persone o fatti realmente esistenti non è assolutamente casuale. Due messaggi fasulli strategicamente piazzati per aumentare la curiosità di chi scopre per la prima volta la nuova serie di Prime Video? Facile dire di si, ma sarebbe una risposta tanto affrettata quanto superficiale.
Perché Dre e Marissa, Ni’Jah e Caché sono assolutamente finti, ma totalmente veri.

La metamorfosi in serial killer
Andrea detta Dre è una ragazza cresciuta male. Vive con la sua inseparabile amica Marissa con cui condivide la passione per Ni’Jah, una cantante dal successo planetario e dalle orde di fan adoranti. E sembra essere questa l’unica cosa che Dre fa. Perché, mentre Marissa ha sogni e desideri, amici e amori, progetti e direzioni da prendere, Dre ha solo la sua passione per Ni’Jah. Talmente grande da essere rimasta ancorata ad un gruppo chiamato The Swarm (lo sciame) composto dalle killing bees (api assassine) che difendono a oltranza ogni scelta della loro queen bee (ape regina). Una tragedia improvvisa priverà Dre della sua unica ancora con la realtà. Senza Marissa, la ragazza prenderà alla lettera il suo ruolo diventando una feroce serial killer che sceglie le sue vittime in base a cosa twittano contro la sua Ni’Jah.
Paradossalmente, sarà proprio questa svolta violenta a permettere a Dre di superare le sue insicurezze. Dre impara ad avere fiducia in sé stessa. Riesce a sentirsi anche bella e seducente quando prima non aveva mai avuto un ragazzo. Continua a non legare con gli altri, ma stavolta è solo per non farsi scoprire. Perché, invece, Dre sa mostrarsi anche amichevole e mettersi a disposizione delle compagnie che di volta in volta si trova a incontrare se questo può servirle a nascondersi in piena vista. A diventare invisibile per scelta opportunistica e non perché esclusa da chi la ritiene troppo stramba. Swarm è la storia di una crisalide che ci ha messo troppo ad uscire dal suo bozzolo. Solo che a nascere non è stata una farfalla innocente, ma un’insetto feroce il cui morso è letale.
Una metamorfosi che, in verità, era già sotto la pelle. Dre vive in un perenne stato di quiete prima della tempesta. Resta silenziosa e calma finché non esplode in una violenza omicida che le regala attimi di intensa felicità. Non perché ami uccidere quanto piuttosto perché in quei momenti sta realizzando con successo il compito che si era assegnata. Il suo stesso modus operandi ne è una prova. Colpi ripetuti con corpi contundenti improvvisati e preceduti sempre da quella domanda: chi è il tuo artista preferito? La conferma di cui ha bisogno per verificare che sta facendo quella che ritiene essere la cosa giusta.
Swarm è questo: la storia di una ragazza che ammirando il volo di una farfalla si è trasformata in una serial killer perché convinta che solo così quel volo potesse continuare.


Verità e finzione
Serial killer e finzione televisiva o cinematografica sono spesso andati fruttuosamente a braccetto. Swarm non sarebbe, quindi, un’eccezione, solo un capitolo in più in un libro con già molte pagine. Ma c’è quel disclaimer da non dimenticare. Quel questa non è una storia di finzione. Non lo è non perché Dre sia l’alter ego di un qualche assassino seriale realmente esistente. Ma perché è la summa e la conseguenza estrema di tanti esempi reali su cui Glover e Nabers si sono documentati a lungo prima di scrivere la serie.
Anche se non è detto esplicitamente, infatti, Ni’Jah e il suo compagno Caché altri non sono che Beyonce e Jay – Z. E The Swarm è modellato su The Hive (l’alveare), la community dei fan duri e puri della cantante americana. Un parallelismo che non vuole accusare specificamente loro. Non a caso Ni’Jah non si vede quasi mai chiaramente, ma sempre tra luci abbaglianti o i fumi del palco a rappresentare più un’ideale astratto che un personaggio concreto.
Eppure, Swarm è il dito accusatore che Glover e Nabers puntano contro la tossicità di un modo di intendere la passione per i protagonisti della scena musicale. Un mondo con cui il poliedrico artista americano si è confrontato dato che, oltre che attore, regista, sceneggiatore in film e serie tv, è anche cantante con lo pseudonimo di Childish Gambino. Ad essere messa sotto accusa non è la passione spontanea, ma la sua estremizzazione tossica.
Colpa di fan che arrivano ad idolatrare il proprio mito o di un marketing che gioca a costruire immagini ad hoc da mitizzare? Un peccato di persone che hanno perso la giusta scala di valori o responsabilità di una società che li ha svenduti in cambio di sempre più denaro? Un cancro che si riproduce alimentato dalla frenesia dei social o una metastasi diffusasi come conseguenza del non voler lasciare il tempo di pensare? Swarm non intende dare una risposta a queste domande, ma piuttosto segnalarne l’esistenza invitando a non ignorarle.
Swarm, in realtà, non limita la sua critica a questo unico argomento. Illuminanti, in questo senso, sono gli episodi quattro e sette. Il primo sposta il suo focus su certe mode new age che, pur animate da buone intenzioni, finiscono per assomigliare a sette con i propri vuoti rituali e profeti dal volto amichevole. La bravura della debuttante Billie Eilish dipinge un personaggio che ha la capacità di scavare nell’animo di chi le sta di fronte, ma non ha poi soluzioni da offrire né è capace di comprendere l’ampiezza del problema che si trova di fronte.
Se questo episodio è comunque carico di tensione latente, quasi una parodia è il pre season finale che sceglie la forma del mockumentary per farci conoscere qualcosa in più del passato di Dre. Tutta la messa in scena con la camera a mano e le persone intervistate che cercano l’approvazione della telecamera o la compassione dello spettatore sono frecciate dirette ad un modo sensazionalistico di fare tv.
In questo senso, quindi, il disclaimer dice la verità: Swarm non è una storia di finzione perché ci ricorda quelle verità di cui non vogliamo sentir parlare.


Un esperimento unico
Nonostante Swarm sia composta di soli sette episodi della durata di circa trenta minuti l’uno, gli autori hanno già chiarito che non ci sarà una seconda stagione. Il finale resterà aperto in quella sospensione del dubbio su cosa sia reale e cosa solo frutto della fantasia di Dre. Una risposta che forse è scritta nel titolo dell’episodio conclusivo: Only God Makes Happy Endings. Ma c’è un dio nella vita di Dre? O è solo l’ennesima illusione a cui è meglio non sottrarsi per non accettare una verità dolorosa? Soprattutto, è davvero necessario sapere cosa ne sarà di Dre? Cosa aggiungerebbe questa risposta al senso della serie?
In verità, Swarm funziona proprio perché sceglie di andare dritta al punto. Ogni episodio è un passo avanti di Dre lungo la strada che la trascina da una solitudine rassegnata ad una solitudine inevitabile. Un cammino fatto di sangue mascherato nello sguardo silenzioso di una ragazza che ha imparato a nascondersi perché la vita non le ha dato altro che dolore quando si è lasciata vedere. Un percorso reso credibile dalla recitazione intensa e fisica di Dominique Fisher che lavora sui silenzi per comunicare il caos calmo che si agita in Dre.
Swarm si avvale anche di un comparto tecnico di primo livello. La regia ama sperimentare diversi stili spingendosi a soluzioni cinematografiche. La fotografia alterna luci livide, sfumature da sogno, neon stroboscopici, colori pastello a seconda dei momenti e del tono generale dell’episodio. La scrittura di Donald Glover e Janine Nabers e del team che li accompagna sa essere icastica e delicata allo stesso tempo. Allo spettatore non sono concesse pause emotive. Anzi, è costantemente invitato ad andare oltre il sangue che Dre si lascia dietro.
Swarm è un piccolo gioiello che rischia di passare inosservato nella vasta offerta di Prime Video. Un ago appuntito in un pagliaio. Ma, alla fine, ci si ricorda sempre di quell’unico ago che ci ha punto quando ci siamo stesi distrattamente su un pagliaio di comode banalità.
Swarm: la recensione
Giudizio Complessivo
Un piccolo gioiello cattivo che vuole costringere lo spettatore a riflettere sulla tossicità sparsa tra fan e tv