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Steve Jobs: la recensione del film di Danny Boyle con Michael Fassbender

Titolo: Steve Jobs

Anno: 2015    Durata: 122′

Cast: Michael Fassbender, Kate Winslet, Jeff Daniels

Noiosetto. Un po’ ripetitivo. Non emoziona insomma

Ma, un momento. Alla regia c’è Danny Boyle, il Premio Oscar del 2009 (The Millionaire), un artista tutto d’un pezzo, mai banale, che fa della sperimentazione spesso fuori dagli schemi la sua dote migliore. E c’è Aaron Sorkin ad adattare il soggetto, tratto dalla biografia scritta da Walter Isacsonn, per crearne una sceneggiatura come lui ben sa fare. E poi Michael Fassbender, fresco di nomination, ad interpretare il protagonista, e il premio Oscar Kate Winslet come “spalla”.Steve Jobs

Infine c’è la sua storia, il suo ritratto, l’affresco di colui che piaccia o meno, ha cambiato un po’ la nostra società: Steve Jobs.

E allora è necessario riavvolgere il nastro, rimettere in gioco tutte le sensazioni arrivate, forse superficialmente, alla fine del film e sospenderne per un attimo il giudizio, almeno fino ad un’analisi un po più approfondita.

Niente di particolare da ricercare riguardo alla trama, che è semplice e senza eclatanti picchi di originalità, come del resto è norma per i film autobiografici in cui gli sceneggiatori adattano un testo senza concedersi aggiunte di alcun tipo. In questo Steve Jobs si racconta…Steve Jobs.

Ma in questo caso è il punto di vista che cambia rispetto a ciò che siamo normalmente abituati a vedere, poiché non sono gli eventi ad essere parte focale del film, ma è proprio il protagonista.

Non è l’evoluzione della vita di Steve Jobs, ma quella della persona stessa. Intimamente.

Il film ha uno sviluppo spiccatamente teatrale, e Danny Boyle decide di farlo percepire in maniera netta allo spettatore, girando quasi sempre in interni, dividendo la storia in 3 atti ben distinti e chiedendo agli attori una recitazione intensa e dialoghi molto serrati.

Tutto accade nel backstage delle 3 presentazioni mondiali che hanno segnato la carriera di Steve Jobs, quando dal 1984 al 1998, passando per il 1988, videro la luce rispettivamente il clamoroso flop del primo Macintosh, il rivoluzionario iMac e il transitorio e provocatorio Next, che alla fine si rivelò probabilmente il vero colpo di genio, anche se il meno evidente.

In questo contesto, marginale nell’economia del film, si muove in parallelo una seconda linea di sceneggiatura, in cui la vita del protagonista viene spiegata esclusivamente attraverso l’interazione con gli altri personaggi e dai dialoghi con ognuno di loro. Tentativo non semplice, che richiede esperienza ed attenzione, poiché quando non si può contare sulla dinamicità dei movimenti di camera o sulla varietà delle scenografie, ogni parola va pesata ed inserita al posto giusto nel momento giusto, per evitare che lo spettatore si perda o, peggio si annoi.

Il risultato è lodevole, ma non riesce pienamente a tenere lontani i rischi appena citati. Anzi.

E non tanto a causa dei dialoghi in sé, talvolta comunque troppo lunghi, ma più della mancanza di fantasia nel creare le situazioni in cui avvengono gli incontri, che a lungo andare stancano, e danno una fastidiosa sensazione di ridondanza e di ripetitività.

Il regista non riesce ad uscire da una sorta di “loop” in cui pur variando i toni, ripropone quasi in copia, in tutti e tre gli atti, le stesse scene: Steve discute con l’assistente Johanna Hoffmann (Kate Winslet), poi con l’ex socio Steve Wozniak (Seth Rogen) , il capo John Sculley (Jeff Daniels) , l’ex fidanzata Chrisann (Katherin Waterstonn) , la figlia Lisa (Perla Haney-Giardin) e il capo programmatore Handy Hertzfeld (Michael Sturmbag).

Steve Jobs Tuttavia è grazie a questo che le varie sfaccettature del carattere di Steve Jobs traspaiono con forza ed efficacia, così come risulta chiara la loro evoluzione. Si modificano e cambiano in contemporanea con gli eventi quasi in una sorta di stretto legame, in cui successi e insuccessi tra vita personale e lavorativa vanno di pari passo. E’ una sorta di cerchio che inizia con il presuntuoso rifiuto di Steve Jobs di riconoscere i propri limiti umani e che si chiude con l’epilogo in cui lui stesso, con una nuova consapevolezza, ammette di essere…“fatto male”.

Qui sta probabilmente la chiave di lettura del film che, proprio nel compimento del processo di crescita personale del protagonista, trova anche la sua realizzazione.

Alla fine le sensazioni iniziali rimangono comunque le stesse. La differenza è che se superficialmente poteva restare l’idea di un film banale, cercando meglio se ne scoprono scelte e significati che nobilitano gli autori, e restituiscono il giusto valore al loro lavoro. Che comunque questa volta è noiosetto. Un po’ ripetitivo. Non emoziona insomma.

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