
Sherlock: Recensione della 4.01 – The Six Thatchers
“The Appointment in Samarra”
(as retold by W Somerset Maugham [1933])
The speaker is DeathThere was a merchant in Bagdad who sent his servant to market to buy provisions and in a little while the servant came back, white and trembling, and said, Master, just now when I was in the marketplace I was jostled by a woman in the crowd and when I turned I saw it was Death that jostled me. She looked at me and made a threatening gesture, now, lend me your horse, and I will ride away from this city and avoid my fate. I will go to Samarra and there Death will not find me. The merchant lent him his horse, and the servant mounted it, and he dug his spurs in its flanks and as fast as the horse could gallop he went. Then the merchant went down to the marketplace and he saw me standing in the crowd and he came to me and said, why did you make a threatening gesture to my servant when you saw him this morning? That was not a threatening gesture, I said, it was only a start of surprise. I was astonished to see him in Bagdad, for I had an appointment with him tonight in Samarra.
Quando nel 1887 Sir Arthur Conan Doyle diede alle stampe Uno studio in rosso non aveva sicuramente idea che, a distanza di 130 anni, quell’arrogante personaggio a cui aveva dato vita sarebbe diventato un fenomeno mediatico grazie ad un altro mezzo di comunicazione. Un mezzo ben lontano dalle pagine in cui Sherlock Holmes dava prova del suo incredibile intuito, eppure vicino alla carta stampata almeno per uno scopo: dare colore e verosimiglianza ad una fantasia.
The Six Thatchers inaugura la quarta (e ultima?) stagione di Sherlock riprendendo il filo del discorso da quel momento decisivo che tre anni fa ci aveva lasciato con un unico grande interrogativo, il cui fuoco era stato ben alimentato dallo speciale vittoriano The Abominable Bride.
Sotto la minaccia di un suo ritorno, Baker Street è tornata ad essere abitata dal suo più famoso inquilino. Tra casi risolti a colpi di tweet e primi disastrosi approcci con la nuova arrivata in casa Watson, il nuovo percorso di Sherlock è improntato sulla ricerca di una normalità umana, grazie alla presenza ormai costante di John ma soprattutto di Mary. Quello che era un duo, si è in definitiva trasformato in un trio, anzi un quartetto all’arrivo di Rosamund Mary.
Eppure questa apparente routinaria tranquillità è costantemente minacciata da quel tarlo invisibile. Anche nel caso principe dell’episodio – costruito sapientemente da Moffat e Gatiss come una matrioska che progressivamente si lega a doppio filo alla trama orizzontale – quel sapore barocco che ha il beffeggiare uno dei personaggi più controversi della politica inglese, la Napoleone dei nostri giorni, è riconducibile al nostro a Moriarty. Un’ossessione così presente da renderlo imprudente e quasi cieco.

L’appuntamento con la morte
Sherlock è un gioco in cui i personaggi, come lo spettatore, sono chiamati a partecipare. Più ci si muove sullo scacchiere, tentando di prevedere la mossa successiva dell’avversario, più la posta in gioco diventa alta. Il rischio e l’adrenalina sono la linfa di questo coinvolgimento, a cui è difficile rinunciare. Perché il brivido di sfidare la Morte supera di gran lunga la paura di essere privati della Vita stessa.
Non sorprende quindi che a subire le conseguenze di questa spregiudicata corsa sia uno dei personaggi principali che più ha giocato con la vita e che del pericolo ha fatto il suo mestiere. Perché, come racconta Sherlock ad inizio episodio e ossessivamente ripete a se stesso e a noi nel corso della puntata, quell’appuntamento a Samarra che tanto evitiamo arriva per tutti. Lo sapeva bene anche Mary, nonostante avesse sperato per sé e per John una vita senza conseguenze.
Il suo è un addio atteso, non perché nei romanzi di Doyle il suo personaggio faccia la stessa fine ma anche e soprattutto perché la sua dipartita spezza definitivamente un cerchio che avrebbe forse stancato e reso umanamente troppo sopportabile un personaggio che rifugge dal sentimento. Senza escludere – e solo il tempo e le prossime puntate potranno darci ragione o torto – che la morte di Mary possa inoltre essere l’inizio di quel temuto gioco postumo architettato da Moriarty. L’inizio della reale discesa nelle cascate di Reichenbach, la prima pagina di un racconto il cui titolo potrebbe essere – sarà – Il problema finale.

La vulnerabilità del sentimento
Mentre attendiamo che la Morte ci venga a fare visita, esiste uno schema a cui è possibile sottrarsi? Cosa ci può spingere ad intraprendere strade che nella vita non ci aspettavamo minimamente di solcare? Cosa può aiutare il nostro avversario a condurci nella sua tana e sconfiggerci?
Per quanto sia stato lui stesso il primo grande ostacolo a questa trasformazione, l’evoluzione del personaggio di Sherlock è tutta indirizzata verso la sua umanizzazione, verso il suo allontanamento da un catatonico stato di atarassia, legato non solo alla sua incredibile intelligenza ma probabilmente anche al destino di quel terzo Holmes che speriamo di conoscere presto (Sherrinford?).
Sherlock è la prova che l’uomo, persino il più arguto, è reso vulnerabile dal sentimento. Lo sottolineano ammo, amore, love, parole che ritornano prepotenti in questa puntata. Quella porta si è per lui spalancata e non è più possibile tornare indietro. Eppure rappresenta la sua stessa rovina, quel lembo di pelle scoperto da una corazza costruita da anni di superbia e di distacco. Il punto debole su cui Moriarty ha fatto e farà leva.

Recensire Sherlock è un’impresa ardua, il rischio di risultare banali è dietro l’angolo. È quasi impossibile riuscire a trovare dei difetti ad un prodotto che è quasi riuscito a creare un genere a sé, al centro esatto tra il cinema e la televisione. Gli aspetti tecnici, la cura dei dettagli, la capacità di ridare nuova vita ad un personaggio letterario tanto chiaccherato e così spesso protagonista di adattamenti televisivi e letterari, sono i punti di forza di una serie che chi si proclama telefilm addicted dovrebbe vedere
The Six Thatchers non è certo da meno. Se proprio vogliamo essere pignoli, gli unici nei che possiamo rintracciare in questo episodio sono una gestione del tempo non sempre coerente (troppo veloce all’inizio e molto più lenta dalla metà in poi) e la prevedibilità della morte di Mary, per quanto – come detto sopra – la sua dipartita non era solo aspettata ma necessaria. Ma è un difetto che fa parte del gioco. Una partita a scacchi in cui, come Antonius Block ne Il Settimo Sigillo, si ritroviamo a giocare a scacchi con la Morte.
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