
Scandal: recensione dell’episodio 3.16 – The fluffer
Quello che rende bello ed unico Scandal è il suo essere un telefilm a più livelli. Non è soltanto un susseguirsi di eventi sorprendenti e sempre più intricati ma è anche (e oserei dire soprattutto) un’analisi delle conseguenze psicologiche di questi eventi, delle loro implicazioni filosofiche–morali. “The Fluffer” raggiunge forse, in questo senso, uno dei punti più elevati delle tre stagioni: un episodio denso di battute intriganti, cariche di significato, che si prestano a molteplici interpretazioni. Il titolo stesso è ripreso da un geniale sfogo di Livvie nei confronti del presidente: Fitz, bontà sua, aveva visto bene la scorsa volta di liquidarla con la stessa nonchalance con cui si dà un buffetto al cane perché sta dando fastidio. La tensione, dopo la scoperta della liaison Mellie-Andrew, era arrivata alle stelle e persino Livvie aveva sentito il bisogno di prendersi una pausa da quel manicomio, tanto da arrivare a mandare Abby come sua “portavoce” alla casa bianca, cedendole pure: cappotto, posa nel portare la borsa, e vocaboli (“it’s handled”). Ma Olivia non è davvero capace di starsene senza far nulla, quindi mentre (G)Abby lotta per far sentire la sua voce in quella gabbia di matti che è il quartier generale della campagna Grant, Livvie si mette a lavorare sull’altro progetto che le sta veramente a cuore: mettere KO l’organizzazione B613. Certo, questo comporta riprendere rapporti con Eli Pope: associarsi a suo padre? A mio avviso è come collaborare con il diavolo. Non è cosa saggia, e chiedergli delle promesse lo è ancor meno. E’ vero lui ora sembra uno dei “good guy” ma ha pur sempre fatto cose terribili e sa benissimo mettere in atto il motto “il fine giustifica i mezzi”.
Quindi sì, per l’attuazione del “bene” che Pope e figlia hanno in mente io sono pronta ad aspettarmi anche tanto male, morte, violenza. Provocata direttamente o, come poi vedremo accadere non molto dopo, indirettamente. Poi però, siccome la Pope troppo lontana dalla White House non ci sa stare e Fitz non è un uomo a cui piace sentirsi dire “No”, il presidente chiede e ottiene di vederla. Tra i due si innesca la solita dinamica per cui Lei, super concentrata, gli espone i problemi della campagna, e lui va avanti imperterrito con il suo discorso (che 99% delle volte riguarda loro il loro rapporto: in questo caso il suo essere offeso dal fatto che abbia mandato Abby al posto suo). Lei, gagliarda, ribatte con un discorso che se non la conoscessimo diremmo che se l’è provato davanti allo specchio: gli spiattella in faccia tutto quel che la logora dentro. In sintesi: cosa posso fare per te, Fitz? Di cosa hai bisogno? Perché io sono (e devo essere) una tua dipendente e nulla più. Il presidente, come al solito in bilico tra l’indignato e il nervoso, risponde che non è lui il “bad guy”.
E’ vero non è colpa di Fitz di tutto il marciume che è avvenuto negli anni del suo mandato, così come non è colpa loro del fatto che loro relazione che resti così “sospesa”. Pare esserci quasi una “mano invisibile” che guida gli eventi, una sorta di forza sovrannaturale che fa procedere la storia mescolando e facendo interagire insieme gli aspetti più atroci della realtà e i risvolti più bui del carattere dei protagonisti. Sembra esserci, diciamo, qualcosa che porta sempre a dire, tanto per il loro rapporto che per la presidenza Grant, “You want it to be easy, you want it to be simple. It is not easy, it is not simple”.
Andando avanti con l’episodio ho realizzato qualcosa, e mi sento di poter avanzare un’ipotesi: è la differenza ignorata tra “want” e “need” che determina gli eventi. E’ il fatto che Livvie e Fitz facciamo ed abbiano fatto sempre prevalere quel che “dovevano” fare su quel che “volevano fare”. La puntata è di passaggio, vi avvengono talmente tanti rivolgimenti che è difficile tenere il passo e tutti sono trattati in modo un po’ sommario: la questione Reston, Adnan – Maya – Clare in combutta, il progetto di Livvie, la missione di Quinn, i problemi tra Fitz e Mellie.
Una piccola parentesi per far notare come i dettagli facciano la differenza: la scena delle 3 cravatte che Mellie propone a Fitz. Lui le prende e le scaraventa a terra. Lei arriva e le rimette a posto: un po’ come le apparenze calcolate in ogni dettaglio vengono ogni volta trascese in nome del sentimento e ogni volta rassettate in nome del comune intento: vincere, vincere, vincere. Ma arriva un momento in cui anche chi è sempre pronto a non guardare e correre verso il suo obiettivo, cede. “You keep everytingh from me!” urla Mellie al marito: si può darle torto?.
Certo, scatto ingiustificato di gelosia o mossa politica calcolata, questo tentativo di Grant di mettere fine alla loro relazione illecita è la prova di come lui sia un po’ torturatore di Mellie. Ma in questo caso più che mai possiamo dire che ogni vittima “ama” il suo carnefice.
Morale? Chi si eleva al posto del Dio giudicatore è destinato a fallire: B613 è “fatto fuori” da loro, loro stessi si sono distrutti nel momento in cui hanno annientato l’organizzazione, poiché si sono auto-arrogati il diritto di definire “cosa è tenebre” e “cosa è luce”.
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3.16 - The fluffer
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