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Sanctuary: il sumo come metafora dell’equilibrio – Recensione della serie giapponese di Netflix

Se c’è una cosa che Netflix e i servizi di streaming hanno reso possibile è guardare una serie come Sanctuary. Ossia un prodotto nato e pensato per un pubblico talmente diverso da quello occidentale di cui siamo parte da sembrare quasi venire da un altro mondo.

E proprio per questo essere così interessante a prescindere per chi abbia la curiosità intellettuale di guardare oltre il proprio posto sicuro per cercare qualcosa che non si conosce. Certo, alle volte l’impatto può essere respingente e il risultato deludente. Ma, alle volte, invece, si trova Sanctuary. E si ringrazia che esiste un’offerta seriale tanto multiculturale.

Sanctuary: la recensione
Sanctuary: la recensione della serie – Credits: Netflix

Fare lo shiko

Sanctuary è una serie giapponese ambientata nel mondo del sumo. Ragionando in termini occidentali, si potrebbe definire il classico dramma sportivo dove un underdog affronta una serie di ostacoli per arrivare infine al successo. Che sia una medaglia d’oro in una competizione di atletica, un goal all’ultimo minuto, il canestro decisivo. O anche solo la possibilità di partecipare alla gara che aveva sempre sognato e che sembrava un sogno irraggiungibile. C’è tutto questo in Sanctuary, ma non è un dramma sportivo. Perché quella di Kiyhoshi Oze e del suo avversario Shizuuchi, quella di Enya e Ryuki, di Ensho e Inushima è una storia che si riflette nello spirito del sumo.

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Uno sport la cui essenza non è la mastodontica figura dei lottatori il cui peso titanico è l’unico aspetto che noi occidentali cogliamo. Al contrario, per il sumo come per Sanctuary ciò che davvero conta è comprendere il significato di quel gesto più iconico: lo shiko. Piegarsi a gambe aperte lasciando che siano le ginocchia piegate a reggere il peso del corpo e poi alzare a turno una gamba per lasciarla ricadere a terra con forza controllata. Un movimento che siamo abituati a credere sia puramente cerimoniale per intimorire l’avversario. Ma che ha, invece, un’importanza enorme sia a livello atletico che, soprattutto, metaforico.

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Sanctuary ne è la dimostrazione. Fare lo shiko è ciò che serve a Kiyoshi, ragazzo problematico con un padre rassegnato perdente e una madre persasi tra prostituzione e rapporti con toy boy sfruttatori. Lacerato tra il desiderio di non essere come un padre che non può non amare e rincorso da una madre che vuole solo sfruttarlo. Attratto da una ragazza che lo illude e avvinto da un amico che vuole solo portarselo appresso come un esemplare raro da mostrare. Voglioso di scalare le vette del sumo e poco disposto ad accettare di non poter scalarne la montagna con un solo balzo.

Deve fare lo shiko, Kiyoshi. Perché quel movimento da ripetere fino allo sfinimento è, in realtà, la ricerca dell’equilibrio perfetto. La metafora del dover trovare il giusto punto di mezzo tra gli opposti che si affrontano in lui. Perché solo quando i demoni e gli angeli che si danno battaglia nel suo animo avranno fatto pace, Kiyoshi potrà trovare la forza per affrontare non solo ogni altro lottatore, ma soprattutto la vita.

Sanctuary nasconde sotto l’apparenza di dramma sportivo la sua natura più intimista. Non è una serie su come non perdere, ma su come vincere contro quella parte di sé stessi che vuole condannarci a essere degli sconfitti.

Sanctuary: la recensione
Sanctuary: la recensione della serie- Credits: Netflix

Un coro di voci intonate

Sanctuary non è solo Kiyoshi. A dover fare lo shiko sono, infatti, tutti personaggi della serie. Quale che sia la loro posizione in questo complicato mondo dove c’è sempre un motivo per perdere l’equilibrio. Imparare a restare a gambe aperte senza cadere neanche quando si alzano per batterle a terra per scacciare quegli spiriti maligni che altro non sono che ciò che ci impedisce di trovare la via per arrivare dove sognavamo di essere.

Sanctuary: la recensione della serie Netflix

Tutti in Sanctuary devono imparare a fare lo shiko. Perché devono accettare che il loro momento è passato ed è giunta l’ora di aprire una fase nuova della vita come capita ad Enya a cui gli infortuni hanno precluso il cammino verso la meta più alta a cui sembrava destinato. O devono comprendere di non dover vivere nella speranza di essere uguali ad un modello inarrivabile perché è piuttosto la propria identità può forgiarsi solo cercando la propria unicità. Quello che solo infine riescono a capire sia Ryuki tormentato dal modello di un padre leggendario e Enku che ha visto il suo idolo scegliere un altro come allievo e successore.

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Non ci sono veri e propri villain in Sanctuary. Non perché manchino gli antagonisti dato che questo ruolo è ricoperto in momenti diversi da personaggi diversi. Ma perché anche loro sono, in verità, personalità alla ricerca del proprio equilibrio. A costo di ripetersi, anche per loro il problema vero è imparare a fare lo shiko. Emblematico in questo senso è proprio Shizuuchi, il gigantesco lottatore dal volto sfregiato che incute timore agli avversari per la sua forza incontrollata e per la metamorfosi del suo sorriso quando inizia l’incontro. Eppure, anche questa sua violenza è figlia di un doloroso squilibrio in un personaggio a cui non sentiamo pronunciare neanche una parola, ma che ammiriamo immobile a guardare i fiori di ciliegio. Un animo delicato scosso da una tragedia del passato alla quale cerca di sfuggire facendo l’unica cosa che dava gioia a chi amava.

Sanctuary non è un one man show, ma piuttosto il canto di un solista che prende forza dal coro di voci intonate che lo accompagna. Tutte intente a cantare un’ode allo shiko.

Sanctuary: la recensione
Sanctuary: la recensione della serie – Credits: Netflix

Il fascino di un altro mondo

Innegabile che Sanctuary sia anche una serie il cui interesse risiede nella ambientazione sportiva tanto diversa da quella a cui siamo abituati. Agli occhi superficiali di un non esperto, il sumo è solo due persone dal peso spropositato in perizoma che si spingono fuori da un cerchio. Al più ci si limita a domandarsi cosa mangino per essere così pesanti e come facciano poi ad avere una vita quotidiana normale. La serie ha, invece, il pregio di mostrare cosa sia davvero il sumo e perché il suo successo in Giappone non sia solo una questione di diversi gusti in fatto di sport.

Al contrario, il sumo è una religione che fa dei combattimenti i propri riti cerimoniali. Il titolo Sanctuary fa, infatti, riferimento al dohyo, l’area dove i lottatori si sfidano e che è per loro e per chi guarda un vero e proprio tempio. Gli atleti non sono, allora, solo sportivi in cerca di fama e soldi che pure girano in abbondanza quando si raggiungono alti livelli. Sono, invece, quasi monaci che lavorano sul proprio corpo per offrirlo in sacrificio alla ricerca dell’equilibrio. Il lancio del sale prima di ogni incontro, la nenia intonata dagli annunciatori, il rispetto per i maestri, la venerazione per gli yokozuna presenti e passati sono manifestazioni di quella spiritualità scintoista che è difficile comprendere per noi occidentali.

Sanctuary: la recensione della serie Netflix

Un mondo a parte in cui non mancano aspetti che possono essere equivocati. Sanctuary non si astiene dal mostrare atti di bullismo, violenza verbale e fisica, nonnismo spietato, sessismo. Non si tira indietro, ma chiede allo spettatore di non condannare ciò che non conosce. Perché quello che a noi appare bullismo e nonnismo è solo un voler sottolineare come il rispetto sul dohyo vada guadagnato e non preteso a priori. Il voler tenere le donne fuori non è discriminazione come non lo è impedire ad una donna di entrare in un convento di frati. A questo serve il personaggio della giornalista femminista Kunishima la cui condanna frettolosa si stempera in assoluzione appena comincia a comprendere lo spirito del sumo.

Sanctuary chiede allo spettatore di casa nostra di fare lo sforzo di documentarsi da solo su certi rituali e termini la cui conoscenza la serie da, a volte, troppo per scontata (ma magari non era pensata per essere esportata fuori dal Giappone). Lascia molte storie in sospeso e ha un finale aperto che potrebbe suggerire una seconda stagione, ma che ha anche un significato pienamente conclusivo. È una serie che parla di sumo per insegnare una verità universale: bisogna imparare a fare lo shiko.

Sanctuary: la recensione

Giudizio complessivo

Una lezione morale sull'importanza della ricerca dell'equilibrio mascherata da dramma sportivo nel mondo del sumo

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Winny Enodrac

In principio, quando ero bambino, volevo fare lo scienziato (pazzo) e oggi quello faccio di mestiere (senza il pazzo, spero); poi ho scoperto che parlare delle tonnellate di film e serie tv che vedevo solo con gli amici significava ossessionarli; e quindi eccomi a scrivere recensioni per ossessionare anche gli altri che non conosco

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