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Robocop: la recensione

Non è mai facile proporre il remake di un film di successo, perché ci sono solo due strade percorribili: la prima è ricalcare pari pari il predecessore, riducendo però l’operazione ad un semplice e poco rischioso esercizio di stile; la seconda è rielaborarlo nel tentativo di farne uscire un prodotto completamente diverso. Per questo Robocop si è scelta decisamente quest’ultima soluzione. Sgombriamo subito il campo dall’inevitabile tentazione di paragonare questo film del poco conosciuto regista brasiliano Josè Padhilia con il primo Robocop del 1987 di Paul Verhoeven, poiché non hanno nulla in comune se non il titolo, il nome del protagonista e la sigla iniziale. Stop. Robocop2

In una Detroit del 2028, ormai nemmeno troppo futuristica, il cinico Raymond Sellars (Michael Keaton), a capo della Multinazionale Omnicorp, decide di creare assieme al dottor Dennett Norton (Gary Oldman) un robot che possa avere “sensazioni” umane, in modo da ottenere il consenso del popolo americano e orientare il Consiglio di Stato verso l’abolizione della Legge Dreyfuss che consente l’utilizzo di macchine/robot solo per operazioni militari all’estero e non per la sicurezza interna. La scelta cade sull’integerrimo agente di polizia Alex Murphy, marito e padre modello, rimasto mutilato e in fin di vita dopo un attentato orchestrato dallo spacciatore Antoine Vallon, aiutato da alcuni poliziotti corrotti.

Non passerà certo alla storia questo Robocop, ma è un film che si lascia vedere e che almeno non annoia. Contrariamente a quanto si possa pensare, la dimensione più prettamente spettacolare legata a combattimenti, sparatorie ed “action” varie tipiche di questo genere è relegata decisamente in secondo piano, poiché il tentativo degli autori è stato palesemente quello di andare un po’ più a fondo, provando a dare un’anima “umana” ad un film di robot, e prendendo come riferimento più i Batman di Nolan che i Transformers. Con le debite distanze, naturalmente.

Robocop1Purtroppo però non sempre le buone intenzioni vengono premiate e Robocop, pur risultando un buon prodotto estetico, con un gran bel cast e pacchetti tecnologici all’avanguardia, si trasforma pian piano in un’accozzaglia di capitoli aperti che si sovrappongono e aggrovigliano senza che nessuno di essi trovi una chiusura. C’è un po’ di tutto: il cattivo, i poliziotti corrotti, la moglie arrabbiata, il figlio in crisi, il dottore buono, il Presidente senza scrupoli, il presentatore televisivo patriottico e guerrafondaio e chi più ne ha più ne metta, senza però che a nessuno venga mai dato il giusto spazio o l’adeguata collocazione, tanto da sembrare sempre avulsi dal contesto o messi lì giusto per esigenze di copione. Ne consegue che la già troppo arzigogolata sceneggiatura ne risenta parecchio e ben presto se ne affidi lo sviluppo a dialoghi semplicistici che risolvono troppo facilmente questioni complesse, ritrovandosi a vagare qua e là, un po’ in confusione e senza una meta precisa.

Si è scelto di approfondire il conflitto interiore di Murphy o le crisi di coscienza del dottore, sempre in bilico tra lasciare l’ “anima” a Robocop o toglierla completamente cedendo alle richieste di Sellars. Si critica persino una parte del “sistema” americano, attraverso il presentatore televisivo Pat Novak (l’ottimo Samuel L.Jackson), probabilmente l’unico personaggio davvero riuscito.

Ma forse un film di questo genere non è il terreno più adatto per sviluppare certe tematiche anche se, personalmente, ho apprezzato almeno lo sforzo di proporre qualcosa di diverso. Un film sostanzialmente riuscito a metà, che alla fine non accontenta né il purista degli “action-robot” né chi si aspetta una trama e uno sviluppo più corposo, anche se entrambi potranno comunque passare due orette di discreto entertainment.

 

Robocop: la recensione

Incompiuto

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