
Personal Shopper: recensione del film con Kristen Stewart
Titolo: Personal Shopper
Genere: Horror
Anno: 2016
Durata: 110′
Regia: Olivier Assayas
Sceneggiatura: Olivier Assayas
Cast principale: Kristen Stewart, Lars Eidinger, Anders Danielsen Lie, Sigrid Bouaziz
Maureen vive e lavora a Parigi come personal shopper di un’eccentrica diva del jet set. Il suo incarico la fa viaggiare spesso e visitare le boutique più costose e alla moda. La ventisettenne americana ha da poco perso un fratello gemello, Lewis, con cui aveva un rapporto molto intimo, simbiotico, che rasentava la telepatia. Dalla morte di Lewis Maureen cerca in tutti i modi di mettersi in contatto con il fratello, convinta che il loro rapporto possa trascendere i limiti fenomenici determinati dalla sua scomparsa.
Quello del critico è un compito ingrato, paradossale, cerchiamo di spiegare ciò che in realtà non è concepito per essere spiegato, decodificato, giudicato. Un film non vuole essere spiegato ma all’opposto vissuto, goduto, interiorizzato, perché ogni film è un’esperienza e come tale si presterà in qualche modo ai medesimi rilievi di relativismo. Alcuni film in particolare sono ancora più criptici, enigmatici, aperti, escono dalla naturale struttura della narratività, dalla gabbia della logica, e si insinuano nel campo della pura referenzialità. Non basta l’intelletto per spiegarli, serve il cuore, l’emozione, la magia. I film, perlomeno quelli validi, sono cani randagi dell’inconscio.
Non sono un relativista sfrenato, tutt’altro. Una buona lettura critica è in grado di interpretare i segni oggettivi, ossia gli indizi visivi che un film in quanto linguaggio dissemina, una critica onesta è in grado di unire i puntini e ricavare un disegno. Ma una buona analisi, per quanto acuta o suggestiva, sarà comunque una vittoria di Pirro perché ciò che ha avuto un senso per me spettatore, e per il mio personalissimo bagaglio di attitudine, credenze e intuizioni, sarà sempre il frutto di un’attribuzione oltre che di un’interpretazione e potrebbe non valere per chiunque altro. In definitiva siamo noi in quanto spettatori a completare l’universo simbolico del film, il nostro ruolo è attivo, la nostra presenza si sente ma non si vede, come un fantasma.
Ma il film in quanto meccanismo linguistico ha delle regole, la più importante e forse più nota è la cosiddetta sospensione dell’incredulità, ossia un insieme di unità sintattiche (montaggio invisibile in primis) che concorrono a salvaguardare l’illusione cinematografica, a farci credere che quello a cui stiamo assistendo è reale, credibile e coerente. Ma certe regole possono essere infrante, la quarta parete abbattuta e alcune soluzioni formali sono diventate capisaldi di un discorso cinematografico al contrario, ossia finalizzato a disvelare l’artificio che c’è dietro il cinema. Il cinema come testo e non come racconto. La prima è più famosa di tutte è lo sguardo in macchina.
Nel sorprendente finale di Personal Shopper, Maureen, interpretata dalla bella e triste Kristen Stewart, guarda in macchina, guarda direttamente noi spettatori e così facendo ci riconosce, ci interpella. Nello stessa sequenza finale Maureen sta interpellando le cosiddette presenze del film, interrogandole su quale sia il senso di tutto quello cui abbiamo assistito. Nell’ultima domanda ella bisbiglia “Lewis is this you? Or it’s just me?” e un secondo dopo guarda in macchina, incrociando il nostro sguardo. E’ evidente con questa trovata la volontà dell’autore di suggerire una coincidenza univoca tra la presenza nel film (interpellata con le domande) e lo spettatore del film (interpellato con lo sguardo). Lo spettatore è la presenza, ok. Eppure in quell’ultima domanda appena sussurrata – “Or it’s just me?”- avviene un inequivocabile corto circuito, i ruoli si confondono e il film rimescola completamente le carte. Siamo noi il reale e Maureen è lo spirito. Morale della favola: i personaggi dei film sono presenze, spettri, fantasmi.
E’ un finale sorprendente, uno sguardo-rivelazione. Uno shift di paradigma che proietta in un mondo metanarrativo, un mondo teorico in cui il soggetto (Maureen) è puro significante e il significato è una scelta che spetta a noi spettatori attribuire. Chi sono io? ci chiede Maureen. Cosa sono? Che senso mi dai? Sono io reale? (che rimanda minacciosamente a quel sibillino “Are you real?” chattato all’anonimo stalker). Ma soprattutto: chi è lo spettro tra di noi?
Su questo dettaglio visivo si innesta quindi il discorso di Assayas legato alla dialettica tra realtà e finzione, nucleo drammatico del film. E se il reale non fosse il vero ma ciò che è più importante e per questo sentiamo come reale? Ciò a cui noi decidiamo di attribuire una nozione di vero? E se una suggestione fosse più reale di una rivelazione, un’intuizione di una percezione, e se il metafisico fosse più reale di ciò che è fisico e tangibile? Che valore ha per noi l’esperienza filmica? E se i film fossero più reali della realtà stessa perché sanno farci emozionare, riflettere, sentire, spaventare, più delle nostre stesse esperienze reali? Come accade con le strane presenze per Maureen.
La tesi in questione si specifica su diversi livelli di lettura. Nella protagonista anzitutto. Maureen, interpretata efficacemente dalla Stewart, reifica plasticamente il senso di vuoto, il vuoto spirituale, emotivo e per osmosi semantico. Il suo atteggiamento è sempre apatico, smarrito, assente, e scatena emozioni sincere solo in presenza di Louis, quando la osserviamo tremare o scuotersi per una emotività quasi ancestrale. Il suo lavoro inoltre è la quintessenza della spersonalizzazione, di un’assenza di soggettività, la personal shopper, ma che razza di lavoro è? Procura e letteralmente veste i panni di qualcun altro. La sua è una figura meta-fisica, in senso etimologico, per metà fisica e per metà vuota, alla ricerca di un’identità. Quello stesso vuoto che alla fine del film ci supplicherà di riempire. Come uno shopper.
La dialettica tra presenza e assenza, pieno e vuoto, reale e virtuale, è sapientemente trasfigurata. La regia è abile, sopraffina, e dissemina continuamente indizi, tracce, guizzi. Pensiamo agli innumerevoli schermi, device, monitor, dispositivi elettronici che a più ripreso compaiono in corso d’opera. Maureen vive avidamente attaccata ad essi in uno stato di interdipendenza patologica, in un mondo virtuale che è più reale del reale stesso. I dialoghi più intimi e sinceri avvengono via skype, la chat con uno stalker ha priorità rispetto alle sue occupazioni e i molteplici film nel film la informano e istruiscono di tutto quello che c’è da sapere.
Pensiamo ancora all’astrattismo, alla pittura di Mondrian, Malevic, Kandiskij, anch’essa abilmente e sottilmente incastonata nell’impianto. Quale codice espressivo migliore per sottolineare la complementarietà di uno sguardo partecipe e attivo. Oggetti che non rappresentano nulla finché non trovano qualcuno che gli attribuisca un senso.
La regia è dunque abile, ispirata, e soprattutto partecipe, faziosa, tangibile. E si dichiara sin da subito. Nel primo ipnotico piano-sequenza, lungo i vialetti della villa, vediamo la mdp che osserva Maureen in primo piano armeggiare con i lucchetti del cancello. La mdp guarda Maureen, poi è un attimo. All’improvviso si abbassa sulle chiavi e si rialza su Maureen, simulando il movimento di una testa umana che prima si abbassa e poi risolleva il capo per guardare. Ok, messaggio ricevuto, il punto di vista sarà soggettivo non disincarnato, la regia avrà un ruolo attivo non da semplice testimone ma da protagonista, facendosi veicolo e insieme guida al servizio dello spettatore, e del suo ruolo primario all’inizio accennato e nel finale apertamente invocato.
Personal Shopper si rivela dunque grazie all’ultima sequenza per quello che è: non un semplice horror ma un film a tesi, un trattato filosofico, un saggio concettuale e colto che riflette sui meccanismi stessi della visione e sull’interessantissima dialettica tra intellegibile e rappresentabile. Ma il film ha grandi pregi sia sul piano della significazione che della fascinazione, forse un po’ troppo cerebrale, didattico, ma in compenso ha qualcosa da dire e lo dice anche bene. Perché la cornice stilistica del film e suggestiva e convincente. L’ambientazione dark, le atmosfere lynchiane, lo sguardo inquieto e stilizzato, il tono reticente e sommesso, ne fanno un’esperienza originale e ipnotica, un miscellanea iperletterario solo all’apparenza essenziale ma stipato di strati e strati di sottotesti e intuizioni teoriche.
Ci sono film in cui la visione è un’esperienza di immersione non di codifica, in cui il cinema si mostra per quello che è ossia un mondo senza limiti e senza barriere, in cui i personaggi diventano presenze, le presenze fantasmi e i fantasmi flussi di energia. In cui l’essenziale è e resterà l’invisibile e quello che ci sforziamo così tanto di osservare, e credere reale, non sono altro che magnifiche illusioni.
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