
Padri e figlie: Recensione del film di Gabriele Muccino con Russell Crowe
Titolo: Padri e Figlie (Fathers and Daughters)
Anno: 2015
Genere: Drammatico
Durata: 116 minuti
Regia: Gabriele Muccino
Sceneggiatura: Brad Desch
Cast principale: Russell Crowe, Amanda Seyfried, Aaron Paul, Diane Kruger, Octavia Spencer, Jane Fonda
Il film di Gabriele Muccino è un inno delicato all’amore più primordiale che esista, il più ancestrale che cipad sia: quello di un genitore per il proprio figlio.
Dal titolo del film non è difficile capire di cosa tratterà la pellicola, eppure non è così scontato. La storia di Jake Davis (Russell Crowe) e di sua figlia Katie (Amanda Seyfried) si colora di più sfumature.
Il solito Muccino: non è lui se non c’è una storia parallela


Subito nei primi minuti, assistiamo all’incidente stradale che vedrà la morte di Patricia Davis, mamma e moglie amorevole. Da qui partiranno poi quelle che sono le linee guida di tutto il film. Jake, scrittore affermato, rimasto solo inizia a soffrire di disturbi psichici. Violenti attacchi epilettici lo costringono a farsi ricoverare in un centro specializzato e a lasciare l’adorata figlioletta in custodia agli zii per 7 mesi.
Al suo ritorno le cose non sembrano migliorare. L’accanita zia Elizabeth, sorella di Patricia , vuole a tutti i costi adottare la bambina assieme al marito John, avvocato blasonato. Comincerà qui un doppio filone (chicca del regista italiano) che vedrà svilupparsi su due piani paralleli la vita di Katie adulta e quella del padre che 25 anni prima lottava per lei.
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Inizialmente confusa dall’estemporaneità dei fatti, la pellicola trova poi il suo punto di forza proprio in questa regia particolare, che fa risaltare le doti recitative dei due attori protagonisti. Mi riferisco soprattutto ad Amanda Seyfried, per la prima volta forse in un ruolo così importante, che, calata nei panni di Katie, regge bene la scena e tutti i primi piani mozzafiato “mucciniani” che la riguardano frame dopo frame, inquadratura dopo inquadratura.
Una storia che si muove sui binari del tempo, tra presente e passato


Quello di Katie non è un ruolo facile; orfana di madre fin da bambina, ricerca amplessi sessuali con decine di uomini per sentirsi meno vuota e di nuovo avvolta da quell’amore paterno di cui, scopriremo in seguito, la vita l’ha privata presto. Tra un orgasmo e l’altro, sgusciando tra le lenzuola dei suoi numerosi amanti, Katie incontra Cameron (Aaron Paul), giornalista freelance ammiratore dello scrittore Jake Davis. Quando scopre che Katie è la “patatina” protagonista del best-seller di Davis “Padri e figlie”, l’ammirazione per il padre diviene amore per la figlia.
L’incapacità di amare di Katie però, causerà alla coppia non pochi problemi, dovuti anche allo spettro di un padre che non c’è più, ma che anche da inesistente si intrometterà fra loro continuamente, inevitabilmente.
Tornando indietro nel tempo infatti, vediamo come Jake fatichi a rimanere in piedi economicamente nonostante l’aiuto di un’editrice solidale (una Jane Fonda splendida nei suoi 77 anni portati divinamente), e la pubblicazione di romanzi ahimè fallimentari come “Tulipani amari”. Nel mentre, la lotta con la malattia continua, e anche gli scontri serrati con i perfidi zii di Katie sembrano non finire (ma finiranno presto). Tutto questo è comunque troppo, decisamente troppo per un padre single che, in una notte tormentata, muore, battendo forte la testa, vittima dell’ennesimo attacco epilettico.
Un rapporto emozionante tra un padre e sua figlia


Assumono quindi un significato diverso tutte le scene commoventi tra Jake e la figlia Katie, interpretate sapientemente da un Russell Crowe visibilmente emozionato e dalla piccola Kylie Rogers, che a soli 11 anni, si porta a casa una prova di recitazione magistrale.
Si caricano di un valore differente anche tutte le scene che riguardano la Katie più grande, quella intrappolata nella sua vita da 27enne newyorchese, l’aspirante psicologa che scioglie il cuore di Jane, la bambina afroamericana che non parla a causa dei traumi passati, la sgualdrina da una notte e via, ma soprattutto la figlia ferita di un padre che non può esserci.
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Durante la visione sono stato colto da uno strano senso di smarrimento. Per tutto il film ho aspettato un punto di svolta che non c’è mai stato. Mi chiedevo perché quelle scene scollegate e quell’apparente scissione tra le due storie. Poi ho letto tra le righe e il messaggio mi è arrivato forte e chiaro in quell’ultimo straziante abbraccio tra Katie e Cameron e quel “sono qui” sussurrato al cuore della ragazza senza padre.
Siamo tutti Padri e Figlie di qualcuno, dopotutto


Premesse buone per un film che purtroppo paga un copione scritto male dall’esordio confuso dello sceneggiatore Brad Desch, ma che si salva grazie al delicato occhio indagatore di Muccino, giunto ormai alla sua quarta esperienza americana. La storia di una figlia incapace di amare un altro uomo perché innamorata di un unico vero padre può passare da toccante a banale in un attimo, ma non è questo il caso. E molti di noi sanno perché.
Siamo tutti figli e figlie di padri che ci amano anche se non ci vogliono, anche se non ci sono. Siamo padri e figli di noi stessi quando decidiamo di essere grandi pensando di non avere bisogno della protezione di un genitore. Ma ci sbagliamo. Siamo tutti figli di qualcuno.
Siamo figli tanto quanto i nostri genitori sono padri e madri e, come detto da Muccino in una recente intervista, siamo il risultato delle nostre infanzie. Da figlio sogno la libertà, ma di un me potenziale padre non so niente e chissà se lo saprò mai. Giudico ma non conosco.
Allora mi pento e mi dolgo, asciugo le lacrime, esco dalla sala e smetto di pensare. Ora posso solo immaginare cosa significhi essere grandi davvero.