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Orange Is the New Black: indietro non si torna | Recensione della quinta stagione

Un suono assordante accompagna il nostro ingresso nella prigione di Litchfield. Un allarme acuto, che suona ininterrottamente nel corso del primo episodio e che in realtà ci accompagnerà seppur muto durante tutta questa quinta stagione, ad indicarci che la situazione sospesa in cui siamo immersi. Le porte del penitenziario si aprono nel momento esatto in cui si era chiusa la precedente stagione: un capanello di detenute incita a gran voce Daya affinché prema il grilletto. Davanti a lei in ginocchio Humphrey, la guardia che ha introdotto l’arma nella struttura e che ora paga in prima persona le conseguenze di questa sua leggerezza.

Ma in realtà che Dayanara decida o meno di sparare non ha più sostanziale importanza, perché il punto di non ritorno queste donne lo hanno già superato e porta il nome di una di loro: Poussey. Il suo omicidio è stato lo strappo, la ferita, la rottura definitiva. La sua morte è la linea di demarcazione tra quello che è stato Litchfield e quello che sarà. Il presente, quel presente che che questa quinta stagione racconta, è un periodo di passaggio, in cui le leggi di ieri non valgono più e vi è una possibilità seppur minima di poter cambiare.

Le premesse della breve anarchia in cui il carcere piomba potrebbero per certi versi ricordare la rivoluzione de La fattoria degli animali. Ma c’è un punto fondamentale che differenzia la serie tv di Jenji Kohan dal romanzo distopico di George Orwell ed è il senso di comunità, che in situazioni di emergenza (ovviamente con le dovute eccezioni) unisce più che dividere.

Orange is the new black

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Ma il Litchfield 2.0 presentato non è di certo tutto “rose e fiori”, anzi le spinte positive e propositive delle detenute di volta in volta vanno a naufragare, travolte dall’istinto – umanamente comprensibile – di vendicarsi delle angherie, degli abusi e delle torture subite, in poche parole di rispondere alla violenza con la violenza. A questo si aggiunge quell’invisibile filo che lega chi più chi meno all’esterno, a quel mondo che nonostante tutto continua ad andare avanti.

Come vacilla e crolla il progetto portato avanti dalle carcerate di costruire qualcosa che somigli più ad “una casa” che ad una prigione, quest’ultima ultima stagione di Orange Is the New Black prova a rimescolare le carte in tavola non riuscendo del tutto a centrare l’obiettivo.

Se da un lato l’aver dilatato la narrazione permette di seguire senza difficoltà le numerose comunità presenti nel carcere, dall’altra si ha la sensazione che diverso materiale inserito non sia poi così interessante ed essenziale ai fini della narrazione. La storyline che più risente del peso degli anni è sicuramente quella di Piper & Alex, le cui vicende ricalcano le noiose dinamiche di coppia, sfociando con ovvietà nel lieto fine. Dedicare meno tempo a loro avrebbe permesso di raccontare qualcosa in più di altri personaggi, come ad esempio Sophia o Boo.

Tra i tanti percorsi narrativi quelli che più convincono riguardano il bunker di Frieda, il lungo conflitto tra Red e Piscatella e il lutto di Poussey. 

I prime due finiscono ad un certo punto per confluire in uno solo, quando la guardia decide di tenere in ostaggio la Rossa e le sue figlie proprio nella stanza che fa da ingresso a quel piccolo pezzo di prigione finora nascosto che Frieda, scout nell’animo, ha equipaggiato di ogni bene necessario in vista di un’emergenza. E’ nella piscina in cui ha disposto la sala ricreativa che si consuma l’ultimo violento atto di una sanguinosa faida. E, proprio a proposito del flashback di Piscatella, fa storcere un po’ il naso la scelta (come racconta Brad William Henke a Vulture) in fase di montaggio di togliere una parte essenziale che avrebbe di certo cambiato la percezione del personaggio.

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La trama invece che tiene legate Taystee, Suzanne e Soso gioca sì sul sentimento (il corridoio pieno di libri come realizzazione della biblioteca ideale immaginata da Poussey è uno dei momenti più toccanti della stagione, come lo sono l’incapacità di Suzanne di adattarsi alla nuova realtà e il continuo mettere in dubbio la sua bontà) ma diventa struttura portante della stagione stessa. I negoziati condotti da Taystee sono il modo per fare il punto della situazione, per raccontare a chi nei dormitori, nei bagni, in sala pranzo non ha vissuto l’inferno di Litchfield.

Ormai è quasi inutile ribadirlo, ma la forza di Orange Is the New Black è il suo cast, composto da attrici e attori in grado di dare credibilità ad una storia agrodolce, in cui c’è spazio sia per le lacrime che per il sorriso.

L’ultimo esempio si chiude con un cliffhanger che lascia aperte diverse strade ma che chiude definitivamente una porta. Perché sembra ben chiaro che Litchfield, quel Litchfield non esiste più. Indietro non si torna.

Valentina Marino

Scrivo da quando ne ho memoria. Nel mio mondo sono appena tornata dall’Isola, lavoro come copy alla Sterling Cooper Draper Price e stasera ceno a casa dei White. Ho una sorellastra che si chiama Diane Evans.

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