
Oppenheimer e l’impossibilità di domare il genio della lampada – Recensione del film di Christopher Nolan con Cillian Murphy e Robert Downey Jr
Titolo: Oppenheimer
Genere: drammatico
Anno: 2023
Regia: Christopher Nolan
Sceneggiatura: Christopher Nolan
Cast principale: Cillian Murphy, Robert Downey Jr, Matt Damon, Emily Blunt, Florence Pugh, Gustaf Skarsgard, Jason Clarke, Kenneth Branagh, Alden Ehrenreich, Matthew Modine, David Mastmalchian, Dane DeHaan, Jack Quaid, Benny Safdie, Rami Malek, James D’Arcy, Gary Oldman, Tom Conti
Non è ovviamente un caso che la biografia scritta da Kai Bird e Martin Sherwin che Christopher Nolan ha preso come riferimento per la sceneggiatura di Oppenheimer si intitoli American Prometheus. Il mito di Prometeo che ruba il fuoco agli dei per darlo agli uomini e per questo viene condannato ad una tortura eterna sembra fatto apposta per descrivere la parabola di J. Robert Oppenheimer. L’uomo che, guidando il progetto Manhattan, diede all’umanità molto più che il fuoco. Si può quasi dire che li trasformò in dei dando loro il potere di distruggere l’intero creato. Di diventare morte.
Ci voleva un regista come Christopher Nolan per descriverne la tragedia. E per rendergli omaggio con quello che è grande cinema.


Trovare un djinn invece che un genio
Oppenheimer è la storia di un moderno Aladino che la lampada non la trova per caso, ma la costruisce per desiderio di conoscenza prima, per convinzione poi, per necessità infine. Una lampada da cui tirare fuori un genio capace di esaudire ben più di tre desideri nell’illusione di poterlo controllare e sfruttare a proprio piacimento. Almeno fino a che quel genio benefico si rivela essere invece un djinn maligno che si nutre della ferocia autodistruttiva dell’umanità stessa. Perché dare il potere di un dio all’uomo significa solo alimentare il suo ego in una sfrenata corsa a chi potrà usarlo peggio per dominare sul suo stesso fratello.
Questa è la tragedia di Oppenheimer raccontata dal film omonimo di Nolan. La vita di un uomo che, memore dell’invito dell’Ulisse di Dante, ha scelto di seguire virtute e canoscenza inseguendola in giro per il mondo in fermento della fisica di inizio Novecento e cercandola lungo le strade inesplorate che solo pochi pionieri avevano appena abbozzato su mappe pieni di vuoti da riempire. L’impresa di uno scienziato solitario che seppe farsi guida rassicurante per un gruppo di menti altrettanto geniali che non sapevano fin dove sarebbero potuti arrivare lavorando insieme.
La parabola di un patriota che aveva eletto come sua patria un mondo da salvare anche attraverso una cooperazione resa indispensabile dal dover combattere la mutua distruzione che l’arma che lui stesso aveva inventato avrebbe creato. La delusione di un profeta prima osannato e poi gettato nella polvere del disprezzo quando la sua figura si era fatta troppo ingombrante per chi non aveva mai avuto davvero intenzione di ascoltare.
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Oppenheimer è il racconto di una vita vissuta sull’altalena di passioni totalizzanti. Che sia il desiderio di conoscere una scienza nuova o la volontà di aiutare chi era in guerra contro ogni fascismo. L’amore complice e rassicurante per una moglie determinata a non lasciargli sprecare l’immenso talento. E l’attrazione fatale per un abisso irresistibile fatto di carnalità magnetica e peccato consapevole. Un continuo esplorare tutte le probabilità per far collassare la funzione d’onda in realtà che sono immaginarie solo finché non si realizzano.
Come quella di riuscire a costruire la lampada di Aladino e scoprire che il genio era un djinn che non si può più far rientrare in quello che assomiglia troppo al vaso di Pandora. Senza neanche la speranza nascosta sul fondo.


Delitto e castigo
Oppenheimer è anche la storia di un delitto compiuto in maniera innocente e un castigo comminato in modo colpevole. Il confronto tra chi ha alzato il grande masso che bloccava la strada e il serpente che vi era nascosto sotto in attesa di mordere. Quel sasso era l’impossibilità di arrivare al controllo dell’energia atomica. Quel serpente, nel film, prende il volto di Lewis Strauss, l’abile venditore di scarpe che scalò la scena politica americana dirigendo la commissione che si sarebbe occupata degli armamenti atomici dopo la guerra.
Oppenheimer vive anche del duello tra questi due personaggi troppo grandi e troppo diversi per poter convivere in armonia. Il film diventa cinema da camera chiudendosi nella stretta stanza dove il padre della bomba atomica verrà spogliato della possibilità di controllare la sua creazione in una audizione farsa che non fu un processo perché non c’era possibilità di avere un verdetto che non fosse una condanna. Ma è anche cinema fatto di dialoghi serrati e strategie sotterranee per vincere in un tribunale mass mediatico dove anche Strauss verrà trascinato a rispondere della sua burrascosa relazione con lo scienziato un tempo suo amico.
Uno scontro che si svolge su piani temporali diversi con i due contendenti che non si incontrano sui campi di battaglia. I due contendenti sono insieme solo quando i semi del conflitto vengono piantati senza che neanche loro se ne accorgano. Nolan si affida al suo amore per la coesistenza di spazi e tempi diversi nelle sue storie facendo di questo marchio di fabbrica una tecnica narrativa perfettamente funzionale al racconto.
Soprattutto, lascia che i suoi interpreti giganteggino in scena. Promuove Cillian Murphy, presente in molti suoi film, al primo ruolo da protagonista. Scommette sulle doti di un Robert Downey Jr da troppo tempo nascosto nell’armatura di Iron Man. Scelte rischiose coronate da un successo pieno. Perché è nel volto spigoloso dell’attore irlandese che si legge la determinazione di Oppenheimer. Nei suoi silenzi pensierosi la coscienza della propria colpa. Nei suoi occhi azzurri la visione di un mondo dove il fuoco sarà incendio distruttivo invece che fiamma vivificante.
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E perché è negli sguardi di sbieco di un Robert Downey Jr spogliato della sicumera di Tony Stark che alberga l’astuzia di chi si muove dietro le quinte. Nelle sue pose sicure abita la calma forza di chi non accetta sconfitte cambiando piuttosto le regole del gioco e il significato della parola vittoria. Nella sua serafica tranquillità è l’arte di ingannare anche il tuo alleato se questo serve a raggiungere lo scopo finale del tuo cammino.
Oppenheimer dimostra quanto multiforme possa essere il cinema di Nolan. Un regista che è capace di stravolgere il concetto di linearità del tempo per catturare l’anima di ogni storia.


La perfezione di un cinema artigiano
Oppenheimer è anche una lettera d’amore al cinema spogliato di ogni spettacolare artificiosità. A rendere grande il film è l’utilizzo perfetto di quegli ingredienti che nel cinema sono presenti fin dalle origini. Non, quindi, effetti speciali in CGI o invadenti green screen. Ma, al contrario, l’artigianalità delle riprese ammodernata dagli sviluppi tecnologici. Ne è esempio illuminante la scena dell’esplosione della prima atomica nel test Trinity che è presente in tutti i trailer. Un modo di trasportare lo spettatore dentro le fiamme ottenuto con l’inventiva degli addetti agli effetti visivi e l’ausilio di cineprese ad alta risoluzione piazzate strategicamente.
Oppenheimer si fa grande cinema sfruttando al meglio le risorse che qualunque regista può avere a disposizione, ma che deve saper usare. Come la colonna sonora di Ludwig Goransson che accompagna ogni scena in un interrotto alternarsi di musica, suoni, rumori il cui volume e il cui tono scandiscono il rimo del film sottolineando la narrazione e sublimando l’attenzione dello spettatore. O la fotografia di Hoyte Van Hoytema che spazia dal calore della passione iniziale di Oppenheimer alle tonalità neutre della razionalità del progetto Manhattan. Per sbiadirsi poi nella caduta finale ed illuminarsi nel bianco e nero delle scene del dopoguerra.
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Soprattutto, Nolan conferma la sua eccezionale bravura nel tirare fuori il meglio da ogni attore indipendentemente da quanto sia importante il ruolo assegnatogli. In un cast che è perfino troppo lungo da elencare, non c’è una singola voce che sbagli i toni. Che si tratti della profetica saggezza di Niels Bohr (Kenneth Branagh) o della determinata sicurezza del generale Groves (Matt Damon). Della saggia bonomia di Isidor Rabi (David Krumholtz) o della rovente astiosità di Edward Teller (Benny Safdie). Dell’elegante certezza di Hans Bethe (Gustaf Skarsgard) o della gelida avversione del colonnello Nichols (Dane DeHaan). Della fresca irruenza di Richard Feynman (Jack Quaid) o della visionaria intelligenza di Albert Einstein (Tom Conti).
In un cast così corale (che annovera anche Gary Oldman, Rami Malek, James D’Arcy solo per citarne alcuni), oltre alle due voci soliste di Cillian Murphy e Robert Downey Jr, riescono a risaltare anche quelle femminili di Emily Blunt e Florence Pugh. Le due attrici interpretano i poli opposti tra cui oscillò il cuore di un Oppenheimer che aveva bisogno di entrambe per poter trovare l’equilibrio necessario all’impresa che doveva compiere.
Un successo che è oggi un memento per i fisici (e chi scrive questa recensione lo è) e gli scienziati in generale. Un monito che il capolavoro di Nolan costringe a ricordare. Perché, rubando le parole al Signore dei Sogni creato da Neil Gaiman, non è saggio evocare chi non si può controllare. Come si illuse di fare Oppenheimer.
Oppenheimer: la recensione
Regia e fotografia
Sceneggiatura
Recitazione
Coinvolgimento emotivo
Un film capolavoro per celebrare un moderno Prometeo che dovette pentirsi di aver donato agli uomini il potere degli dei