
Roadies: Recensione dell’episodio 1.01 – Life is a Carnival
Premesse. Toccherà farne un po’ prima di lanciarci nella recensione di Roadies. Premessa numero uno: amo Cameron Crowe. Non particolarmente quello che tutti hanno osannato di Almost Famous, o quello più melenso di Jerry Maguire e Elizabethtown, bensì quello capace con un’inquadratura, una canzone o un silenzio di rappresentare una vivida emozione, di cogliere quegli attimi strani e magici della vita che sono pura emozione e che ti rimangono dentro con un senso di dolce malinconia. E anche per questo Crowe non è per tutti. Non tutti siamo sintonizzati sulle stesse emozioni, sullo stesso modo di sentire ed è così che molti non lo sopportano. Insomma, è uno di quei registi/narratori che o si ama molto o si disprezza con ardore.
Detto questo, è anche impossibile negare che le sue ultime uscite non siano state il massimo della qualità. La mia vita è uno zoo è carino ma non molto di più, mentre Sotto il cielo delle Hawaii, pur con un cast strepitoso, è un disastro decisamente imbarazzante.
Altro elemento imprescindibile di Crowe è la musica e il suo evidente amore per essa. Che piacciano o no i suoi film, è indiscutibile che le loro colonne sonore siano splendide. Ed io adoro la musica e adoro la musica live, e la magia che si crea sul palco di un concerto, ed è quindi per questo che quando ho visto il nome di Crowe unito ad una serie sulla musica ho avuto un momento di pura gioia interiore.
Tutte queste premesse perché, ancora prima di iniziare a vedere l’episodio, mi erano inevitabilmente giunti all’orecchio pareri parecchio negativi sulla serie. Stroncature secche. Che per il mio parere risultano decisamente esagerate
Roadies, da titolo, ha come protagonisti tutti quei lavoratori dai ruoli più svariati che stanno dietro alle quinte dei grandi concerti. Quelli che con il loro duro lavoro rendono possibile la magia che avviene sul palco. Manager, organizzatori, security, tecnici, mediatori, baby sitter di ego smisurati. Tante persone insomma che, vivendo e lavorando a stretto contatto e sempre per strada, vanno a formare inevitabilmente una sorta di tribù/famiglia.
Il cast è quindi ampio e variegato e diciamolo, un po’ sopra le righe. Ci sono Bill e Shelli a dirigere il circo e ad assicurarsi che tutto fili liscio, che i cantanti siano contenti e che i boss che mettono i soldi siano tranquilli. C’è la vecchia leggenda del rock un po’ fuori di testa, con tanta saggezza e un filo di pazzia, l’autista di bus un po’ filosofo, i tecnici un po’ strambi e la giovane Kelly Ann (tecnica delle luci?), appassionata e sognatrice. E poi la band, che resta lontana e intoccabile come le vere rockstar.
A mischiare le acque in questo delicato ecosistema arriva Reg Whitehead, mandato dai piani alti per mettere in ordine i conti e far spendere di meno. Parla subito di branding e marketing, incarnando così il gretto materialismo che si oppone alla magica energia della musica. È l’estraneo che parla di soldi quando è di delicata alchimia che ci si occupa. Ma è ovvio che la sua visione è destinata a cambiare parecchio.
L’episodio scorre via liscio, saltando da un personaggio all’altro, da un imprevisto all’altro, mentre piano piano il palco viene costruito fino ad arrivare alle prime note del concerto. I componenti degli Staton-House Band, come detto, restano nella ombra anche per mantenere quella sorta di misticismo tipico delle rock star, mentre più presente e vocale è il gruppo di apertura.
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