
Milano Film Festival: Necktie Youth – la recensione
Nel 2007 Jamie Brittain e suo padre, Bryan Elsley, co-producono una serie televisiva chiamata Skins, che mette in mostra, cercando di applicare meno filtri possibile, i pregi ed i numerosi difetti della gioventù contemporanea, focalizzandosi su adolescenti tra i sedici ed i diciotto anni, nella città inglese di Bristol. Nel 2015 il regista ventitreenne di origine sudafricana, Sibs Shongwe-La Mer, dirige e recita nella pellicola Necktie Youth, che affronta lo stesso tema, arricchito però da una cultura in evoluzione, figlia dello sconfitto apartheid e del mito che è stato Nelson Mandela.
Il lungometraggio, già presentato al Tribecca Film Festival e parte della sezione Final Cut della settantesima edizione della Mostra Cinematografica di Venezia, con l’allora provvisorio titolo Territorial Pissing, racconta della gioventù poco più che ventenne di un quartiere benestante di Johannesburg. Il momento della vita di questi giovani che viene immortalato è quello dell’anniversario della morte della loro amica, Emily, suicidatasi in diretta all’anniversario della rivolta di Soweto, il 16 giugno. In occasione dell’anniversario della sua morte viene realizzato un documentario, a cui intervengono tutti i suoi conoscenti. Il documentario è un’occasione per ricordare l’amica ma risulta anche il pretesto per far emergere quanto poco in realtà la conoscessero tutti, quanto vuota sia la loro vita, pur piena di cose e persone, e quanto siano in verità già ‘morti’ loro stessi, pur avendo ancora la facoltà di respirare.
Il titolo gioca proprio sul tipo di società che viene raccontata da La Mer. Il farfallino dello smoking – in inglese ‘bowtie’ – viene qui storpiato fino a diventare ‘necktie’, dunque cappio al collo. La società perbenista, di facciata, vuota di sostanza e piena solo di sostanze stupefacenti e di comportamenti evidentemente scaturiti dalla ‘noia di vivere’, è qui un agglomerato di giovani con una corda intorno al collo, non solo figurativamente ma, come nel caso di Emily, anche letteralmente. Mentre la scelta discutibile di Emily mette in subbuglio la precaria quiete che teneva insieme il gruppo di amici, la ragazza risulta l’unica vera coraggiosa della situazione, l’unica che riesce a trovare il coraggio di ‘vivere’, smettendo di essere un’inetta e finalmente accettando la passività con cui affronta il mondo, realizzando che l’unico modo per superare l’ostacolo è buttarsi dalla scogliera della certezza verso il vuoto, l’ignoto.
Se Emily appare come un ricordo, l’unico colore in un mondo bianco e nero, i suoi cosiddetti amici continuano sul filo del rasoio, vivendo vite piene solo di un realismo forzato in cui l’identità delle persone non esiste in quanto individuo singolo ma solo in quanto membro di una società, con pensieri e desideri che la società impone. Ecco che uno dei protagonisti si sente escluso e viene escluso perché non vuole andare ad una festa, ecco che un ‘amico’ che va in overdose viene scaricato sul marciapiede perché considerato un peso morto e un inconveniente. E come un tamburo, con un ritmo sempre più incalzante, ogni scena è percossa dalla realtà di una società ricca, una società capitalistica e vicinissima alla realtà americana. Cosa combatteva Mandela, cosa voleva per il Sudafrica? Il suo nome viene citato più e più volte, un simbolo di fede nel futuro laddove un futuro ormai non esiste, copia di un passato che si è cercato di eliminare. I ‘nuovi ricchi’ non sono altro che i ‘vecchi ricchi’ con la pelle scura, con le stesse pretese di vita e lo stesso modo di agire dei dominatori che hanno così faticosamente scacciato.