
Le migliori serie tv del 2020: 5 telefilm da non perdere
Ci siamo. Comincia il conto alla rovescia per la fine di un anno che vorremmo dimenticare per ovvi motivi. E comincia il momento in cui i vostri recensori di fiducia cercano di mettere ordine nel caos di titoli che hanno visto per tirare fuori le top che tanto piacciono a grandi e piccini. Certi di far felici chi trova il suo titolo preferito e di prendersi dei sonori rimbrotti da chi non capisce perché ci sia questo e non quello. Con la ovvia ma mai troppo ripetuta avvertenza che ogni scelta è strettamente personale e perciò criticabile e rivedibile e condannabile e apprezzabile e lodabile a seconda dei gusti di chi legge.
Proprio per questo l’elenco è in ordine di messa in onda e non di preferenza.
Pronti, partenza, via e si comincia con le migliori serie del 2020:

Unorthodox
Molto liberamente ispirata dal romanzo autobiografico pubblicato da Deborah Feldman, la miniserie scritta da Anna Winger e Alexa Karolinski e recitata per la maggior parte in yiddish racconta la storia di Esty. Sposa a soli 17 anni per un matrimonio combinato, Esty vive seguendo le draconiane leggi degli Ebrei Chassidici, una setta ultraortodossa confinatasi nel distretto di Williamsburg a New York. Interpretazione letterale del Talmud e rispetto maniacale delle proprie origini ebraiche conducono i membri a rifiutare qualunque contatto non lavorativo con il mondo esterno. Un gruppo di persone appartenenti ad un popolo che è stato sempre oppresso e perseguitato e che ha deciso di rinunciare al coraggio di credere ancora negli altri. Scegliendo, invece, di avere paura e chiudersi dietro le mura di un esilio forzato diventando il proprio stesso nemico.
Unorthodox mostra in maniera evidente quanto tutti i fanatismi siano uguali e quanto poco importi di quale religione siano figli. Non importa se chi si arroga il diritto di scegliere per gli altri dica di parlare a nome di Jahvé o di Allah o di Cristo. Quel che conta è la violenza che si abbatte sempre e ancora sulle donne. Consegnate dal padre allo sposo quasi fossero animali da scambiare per affari. Ridotte a esseri il cui unico scopo è procreare per Israele ed esaltare la sua sottomissione all’uomo. Spossessate del proprio stesso corpo con i capelli rasati a zero e gli abiti informi a sottolineare la rinuncia alla propria individualità.
Unorthodox è il racconto di una rinascita dolorosa, ma necessaria. Di Etsy che trova la forza di accettare di essere stata ingannata da chi doveva volere solo il suo bene. Seguire questa ragazza minuta e dall’aspetto fragile è un violento pugno nello stomaco quando si assiste a scene psicologicamente devastanti come le sue notti di nozze.
Ma è anche una carezza rasserenante quando la vediamo muovere con successo i suoi incerti primi passi in un mondo nuovo. Soprattutto, la storia di Esty è una calamita che non ti lascia andare perché è impossibile resistere al magnetismo creato dall’intensità della giovane attrice israeliana Shira Haas.
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Tales from the Loop
Traendo un’insolita ispirazione dall’art book omonimo dell’illustratore Simon Stalenhag, Tales from the Loop di Nathaniel Halpern per Amazon Prime Video racconta alcune delle storie degli abitanti di Mercer. La piccola immaginaria cittadina rurale sorge intorno alla sede del Loop, un centro di ricerca costruito per studiare le proprietà dell’Eclisse, una misteriosa sfera dotata di poteri mai descritti chiaramente. Una traccia esilissima che lascia enigmaticamente in sospeso mille domande sul dove e il quando della serie.
Scelta assolutamente voluta perché il mondo di Tales from the Loop è, in realtà, fuori dal tempo e dallo spazio. Le vestigia di uno sviluppo più rapido di tante tecnologie, ma al tempo stesso le rovine di tante altre diventate in fretta obsolete. Quello che vediamo sullo schermo è il passato di nessun futuro.
Proprio questa contraddizione del tempo regala la massima libertà all’immaginazione trasportando sullo schermo la malinconia dei sogni che si sono avverati solo per spegnersi troppo in fretta. Paesaggi rurali intrisi di una tranquilla quotidianità in cui si inseriscono armoniosamente elementi fantascientifici in decadenza. Edifici futuristici in rovina. Macchine mirabolanti in disuso. Robot avveniristici abbandonati alla solitudine della rovina.
Uno scenario poetico quanto malinconico che si sposa bene con una serie che vuole accompagnare lo spettatore in un percorso emozionale dove ciò che vede sono uomini e donne, adulti e bambini, ragazzi e anziani che devono confrontarsi con le sfide eterne dei sentimenti e delle domande.
Tales from the Loop è un viaggio dentro sé stessi. È vivere nel mondo di fuori per capire quello di dentro. Un cammino che bisogna compiere bevendo l’acqua fresca di sorprese gioiose e bagnandosi negli stagni paludosi di cocenti delusioni. Un percorso a volte accidentato, altre pianeggiante, tra sentieri battuti all’ombra di sentimenti allegri e strade dissestate infestate da emozioni tristi.
Una ricchezza che bisogna conoscere per accettare che spesso la risposta a lungo cercata nasce dall’accettare un cambiamento imprevisto. Perché solo ciò che non appartiene alla natura umana è immutabile e fuori dal tempo. Una verità su cui la serie invita lo spettatore a riflettere adottando una lentezza programmatica che lascerà insoddisfatti molti. Ma farà felice chi accetta che la poesia è qualcosa che va assaporato senza la fretta dell’azione.
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Normal People
Tratto dal romanzo di Sally Rooney, Normal People porta sullo schermo il percorso di due ragazzi che, finito il liceo, si trovano ad affrontare le grandi prove della vita. Due persone apparentemente molto diverse. Lui amante dello sport e dei libri e coccolato e protetto dalla famiglia e dagli amici. Lei intelligentissima e determinata fino a sembrare fredda e cinica, quasi come reazione al disastro emotivo della propria famiglia.
Eppure Connell e Marianne si riconoscono istintivamente e iniziano quasi per caso una relazione amorosa lontano dagli occhi di tutti. Perché entrambi sono alla ricerca della definizione di sé stessi e impegnati nel tentativo, che proseguirà per tutta la vita, di far coincidere il più possibile quello che sta dentro con quello che sta fuori.
Una storia che potrebbe sembrare solo l’ennesima riproposizione (innamorarsi e diventare grandi) di quello che è un po’ il tema di ogni teen drama. Eppure Normal People riesce a ritagliare una propria unicità grazie ad una storia malinconica e profondamente viva. Connell e Marianne continuano a respingersi e rincontrarsi in un gioco a nascondino perpetuo.
Un tira e molla che non diventa stucchevole perché lo stile raffinato ed intimo del racconto convince lo spettatore a non schierarsi con l’uno e l’altra, ma a tifare sempre per entrambi. Complice anche la scelta di tematiche come l’ansia sociale, il bisogno di essere accettati per quello che si è, la paura di non meritare l’amore degli altri, il terrore di essere irrimediabilmente difettati. Sentimenti che ognuno ha provato nel suo percorso di crescita e che li accomuna ai due protagonisti.
Anche se spesso in contrasto o distanti, Marianne e Connell non rinunceranno mai al proprio legame, al rispetto reciproco, alla volontà di sostenersi a vicenda, al desiderio di cercare disperatamente il giusto incastro tra i loro percorsi.
Un danzare attraverso la vita che ipnotizza lo spettatore avvinto dalla recitazione intensa dei due quasi esordienti protagonisti, Daisy Edgar – Jones e Paul Mescal. Le loro interpretazioni e quelle del resto del cast unite ad una regia e una sceneggiatura estremamente curate creano una serie appassionante. Molto più di una storia d’amore, ma il racconto della crescita di due ragazzi. Del loro lento trasformarsi in persone aperte e fiduciose verso il mondo e gli altri.
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I May Destroy You
Scritta e interpretata da Michaela Coel e ancora inedita in Italia, I may destroy you è un lungo viaggio in compagnia di Arabella la cui vita è sconvolta da uno stupro. I may destroy you mette in scena il lento percorso che seguirà per accettare innanzitutto di essere stata una vittima e di dover quindi convivere e superare il trauma. Le paure di restare da sola con gli uomini e il desiderio di non cambiare le proprie abitudini. L’utilità di condividere la propria esperienza per capire prima di tutto sé stessa. L’importanza di avere accanto amici disposti a cambiare la propria vita o anche solo essere lì per te in silenzio.
I may destroy you racconta il dopo dal punto di vista di una vittima che non vuole essere descritta come tale, ma solo tornare ad essere niente più e niente meno che Arabella.
La serie va anche oltre questa esperienza personale facendone l’occasione per un discorso più ampio e complesso. Ribadire che no resta no a prescindere dai comportamenti della vittima dovrebbe essere ovvio. Ma I may destroy you si interroga anche su fino a dove può spingersi chi ha ricevuto un sì. Lo fa attraverso la storia di Arabella con Zain, di Kwame durante uno dei suoi occasionali rapporti omosessuali e la sua unica esperienza etero, di Terry e una notte a tre ad Ostia. Un discorso talmente insidioso e complesso perché ognuno cerca sempre di muoversi sul confine tra ciò che si può e ciò che non si può. I may destroy you parte dallo stupro di Arabella, ma allarga i suoi orizzonti per mostrare come si abbia il diritto di dire no anche dopo aver detto sì.
I may destroy you è una serie incredibilmente ricca di argomenti trattati sempre con l’intenzione di andare a guardare sempre la faccia nascosta della Luna. Il risultato è spesso spiazzante perché costringe lo spettatore a riconsiderare temi sui quali era convinto ci fosse un unico punto di vista. Che siano le campagne ambientaliste o il mondo vegan, l’orgoglio nero o il mondo dei social.
Un approccio che evidenzia come giudicare sia spesso un modo troppo frettoloso di considerare una questione. O, peggio ancora, una persona. Perché è impossibile è pretendere che un personaggio sia sempre nel giusto o sempre in errore. Non lo è Arabella. Non lo sono i suoi fidati amici Kwame e Terry. Ma neanche lo sono figure più ambigue come Theodora e Zain. Perché essere umani significa essere condannati a sbagliare prima o poi.
E I May Destroy You lo dimostra magistralmente.
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La Regina degli Scacchi
Ultima ad approdare sugli schermi di casa, La Regina degli Scacchi è la vera rivelazione targata Netflix perché, apparentemente, non dovrebbe avere niente di speciale. La storia dell’orfana Beth Harmon che nell’istituto scoprirà la passione per gli scacchi grazie al taciturno inserviente Mr. Shaibel diventando infine la migliore giocatrice al mondo ha tutti i cliché tipici di una serie di questo genere. Non mancano traumi infantili, famiglia adottiva disastrata, dipendenza da psicofarmaci e alcool, rapporti personali sbagliati, redenzione finale. Eppure, nonostante il fin troppo già visto sia dietro l’angolo, la serie tv Netflix sorprende e stupisce, regalando sette episodi in cui è praticamente impossibile staccare gli occhi dallo schermo. Merito anche della protagonista Anya Taylor – Joy che regala un un personaggio fresco, complesso e autentico, vero gioiello di questa serie.
Mirabile è la serie nel dedicare il giusto spazio a ogni personaggio. Fulcro di tutto resta Beth così schiva e fredda, ma profondamente dolce e bisognosa di affetto. Un’eroina difficile da amare, ma per cui è impossibile non tifare. Beth cerca negli scacchi un rifugio da una vita segnata da dolori ed errori, ma nel farlo perde proprio quei pezzi che avrebbe dovuto salvare. Parallela alla sua maturazione come scacchista, è l’evoluzione del rapporto con le persone che la circondano. Una madre inetta diventa per lei una migliore amica da proteggere. I rivali sconfitti si trasformano in amici o amanti con cui condividere un pezzo di vita. Come il binomio Harry Beltik – Benny Watts con il primo a desiderare la donna Beth e il secondo a cercare la giocatrice Beth. Entità che convivono in lei fino a quando capirà che non sono binari paralleli, ma un unico binario da percorrere.
La Regina degli Scacchi colpisce anche per l’innegabile eleganza della messa in scena. Importante è la sua ambientazione negli anni ’50 – ’60 ricreati con una particolare attenzione ai bellissimi costumi. Un limbo interessante tra ciò che è così vicino da non poterlo più realmente considerare period drama e ciò che è abbastanza lontano da mantenere un fascino antico e per questo entusiasmante per qualsiasi amante del genere. Perfetti anche gli aspetti più prettamente tecnici a cominciare dalla regia semplice, ma sempre efficace. Intelligenti i continui richiami ad una scacchiera sul soffitto, insieme manifestazione della dipendenza di Beth e metafora della divinità del suo dono innato per questo gioco. Meravigliosa è anche la colonna sonora composta da Carlos Rafael Riviera la cui delicatezza esalta i momenti più significativi. Tutti elementi che rendono La Regina degli Scacchi una serie tv intensa, toccante e, nel suo piccolo, magnifica.
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La nostra la abbiamo detta. Aspettiamo i commenti per sapere le migliori serie tv del 2020 secondo voi.