
Manchester By The Sea: La recensione del film di Kenneth Lonergan
Titolo: Manchester By The Sea
Genere: Drammatico
Anno: 2016
Durata: 135’
Regia: Kenneth Lonergan
Sceneggiatura: Kenneth Lonergan
Cast principale: Casey Affleck, Michelle Williams, Kyle Chandler, Lucas Hedges, Gretchen Mol
Lee Chandler è un tuttofare anaffettivo che vive in un quartiere popolare di Boston. Lee tira letteralmente a campare, facendo lavoretti per i vicini e tenendosi rigorosamente alla larga da qualsiasi rapporto sociale. Un giorno riceve una telefonata che lo informa di un grave lutto in famiglia e riprende la strada di Manchester by the Sea, paese dove è nato e cresciuto, per scoprire di essere stato nominato tutore del nipote Patrick. Lee viene messo di fronte a un’inattesa responsabilità che lo costringerà a fare i conti, una volta per tutte, con il proprio passato.
Il primo punto di forza di quest’opera potente è la scrittura di Kenneth Lonergan, sceneggiatore navigato prima che filmaker. I personaggi non sono mai monolitici ma cambiano in corso d’opera (o perlomeno ci provano), mutano atteggiamento, e quello che all’apparenza può apparire come schizofrenia emotiva in realtà è una grande empatia con la vita e le persone. Il secondo pregio invece è nella progressione dell’intreccio, tradizionale nella struttura ma elegante e innovativo nella resa. La divisione in tre atti tipica di ogni racconto di finzione, esposizione/sviluppo/conclusione, e qui declinata in maniera ispirata e personale. Colpisce in particolare il primo blocco narrativo, una lunghissima esposizione in cui la presentazione di personaggi, temi e conflitti, si fa strada in maniera lenta e suggestiva, dispiegando la densità informativa con l’infittirsi dei flashback.
Lee è una persona il cui atteggiamento nei confronti della vita è di chi ha smesso di lottare, di chi non vive ma sopravvive. Ma perché? Chi è Lee Chandler? Lee è il reduce, il moribondo, il prigioniero, un uomo la cui vita non significa più nulla, non gli importa cosa fa, dove va, perché tutto è angoscia e nient’altro che angoscia. All’inizio ci viene presentato come un maker, un uomo d’azione, un professionista del fare, tipico di quei profili psicologici che spaventati della profondità, intellettuale e emozionale, si rifugiano sulla superficie delle cose, nell’apparente beatitudine dei piccoli gesti motori e terreni. Nei primi frame lo troviamo ai confini dell’inquadratura, fuori fuoco o sullo sfondo, a disagio o in pose sgradevoli quando invece dovrebbe occuparne il centro. Lee è un individuo regressivo, che fatica ad andare oltre lo stato fisico delle cose.
Tutto il film si appoggia sulle spalle monumentali di Casey Affleck, la sua è un prova d’attore tutta nervi, complessa e potente, chirurgica e matura, indossa la sua parte come fosse biancheria intima, con la stessa aderente naturalezza. La tensione palpabile, la rabbia repressa che pare stillare da ogni gesto, muscolo o sguardo, sono incarnate con grande abilità tecnica e mimetica. Lee è un irascibile e imprevedibile disadattato, sospeso tra dolore e disgusto, permeato da un’ira distruttiva, una fisicità primordiale costantemente sul punto di esplodere e che racchiude il disagio di intere generazioni. Un’anima serrata dentro un anello di ferro, un uomo che pende troppo dalle labbra del passato per occuparsi del presente.
Manchester by the Sea è un film di sopravvissuti e di rapporti tra sopravvissuti, Lee e Patrick, un orfano di padre e un orfano di figli, Lee e Randi, Patrick ed Elise. Identità fuori-luogo e fuori-tempo, come il batterista del gruppo di Patrick. E Manchester by the Sea è un film morale. E’ chiaro sin da subito che il nucleo drammatico, il cuore di tutta l’opera, è il senso di colpa. L’impianto ideologico basato sulla triade colpa/penitenza/riscatto perde qui il suo snodo centrale e specifica un orizzonte nuovo agli eventi. Perché questa assenza di castigo, questa immeritata assoluzione, non porta Lee alla riconciliazione bensì alla dannazione eterna, lo costringe a diventare aguzzino di sé stesso, insieme vittima e carnefice, e fare dell’autopunizione la sua unica ragione di vita. Lee non è un ribelle senza causa, la verità è ancora più triste, cupa e brutale, Lee è un uomo la cui causa è espiare il suo peccato originale auto-infliggendosi la pena, rinunciando consapevolmente alla vita non essendo più degno di essa.
Tornando alle scelte stilistiche, colpisce in positivo l’equilibrio compositivo dell’affresco, la sua coerenza figurativa ed estetica, che in principio sembra adattarsi sulle posizioni comode del realismo naturalista (alla Jeff Nichols per intenderci), ma virando in corso d’opera verso i confini del realismo lirico, di un universo estetico fotografato da una luce crepuscolare o sovresposta e contrappuntato da uno score sinfonico e struggente. Ora, se la scelta stilistica di una trattazione ibrida, insieme straziante e poetica, tragica e retorica, denota l’originalità di uno sguardo e una messa in scena nuovi, nel contempo lascia un po’ perplessi, perché una certa maniera di comodo sembra messa appositamente lì per espungere la sostanza traumatica degli eventi. E a costo di mostrarsi raffinato, lo sguardo di Lonergan rischia di risultare sterile, stucchevole ed edulcorato.
Ma la regia tutto sommato fa il suo dovere, è fresca e originale, intelligente e sensibile anche quando ruvida e spartana, e fa il paio, a volte per osmosi altre per contrappunto, con la prospettiva inafferabile di Lee. E lo fa senza mai giudicare, è questo il grande merito. Perché parlare di un uomo che ha paura di vivere, paura di sbagliare, paura di ricominciare, e per questo si arrende e smette di lottare, non è facile, e Lonergan svolge il suo compito con grande abnegazione, senza moralismi o cliché, ma solo cercando di inquadrare nel verso giusto, i dubbi, gli affanni e le sofferenze, di un’anima così tormentata.
Lee cerca la deriva, e cerca il mare, il mare di Manchester by the Sea. Nel conflitto figurativo tra tesi e antitesi, il mare rappresenta la vita e la terra la morte, un altro dei temi centrali del film. Lonergan è ossessionato dalla morte, la mostra, la ostenta, la scandaglia, sembra quasi affascinato dal processo fisico della morte, dalla decomposizione, mostra i cadaveri, le lapidi, le foto, le procedure burocratiche di smaltimento e fine-vita, torbide e impudiche fantasie che prima strisciano minacciose sullo schermo e poi dispiegano quelle ali retoriche di cui si diceva poc’anzi, per smorzarne la gittata macabra.
La terra è per Lee morte, significa fare i conti con la trama intricata della vita, con le secche del passato, significa decifrare le lettere intrecciate del suo essere nel mondo e trovare un senso nuovo. Ma Lee ha smesso di lottare. La sua è una sospensione tipica dei soggetti affetti da disturbo post-traumatico, o degli ex-alcolizzati, i due profili sovente coincidono. È evidente la sua incapacità di riorganizzare i frammenti della sua vita dopo la tremenda deflagrazione che l’ha mandata in pezzi.
Le immagini ci mostrano chiaramente il prima e il dopo, anche attraverso il simbolismo della mappa, sulla terra Lee non ha più prospettive o vie di fuga, non è più in grado di decifrare la sua mappa. Per questo egli cerca il mare, la deriva, la liquidità, la superficie, l’assenza di profondità (di analisi, rapporti, emozioni, paure). L’acqua è Arcadia, il locus amenus. E’ soltanto nella sua pelle liquida, nel suo ipnotico e alienante susseguirsi di onde, che collassano i punti cardinali e spariscono i concetti di ascesa e discesa, di prima e dopo, che il caos della profondità cede il passo all’ordine della superficie, il senso di colpa al senso di vuoto, e si può naufragare nell’eterno presente del fotogramma di un ricordo.
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