
Legion: un season finale classico per il capolavoro di Noah Hawley
Supereroi. Quanti sono i film che hanno come protagonista un personaggio con poteri speciali? E quante sono le serie tv che, in questi ultimi anni soprattutto, hanno scritto il loro nome nello sterminato elenco di opere dedicato a questo genere? Domande alle quali anche il meno appassionato può dare facilmente risposte che sottolineano l’abbondanza di prodotti realizzati per il piccolo o il grande schermo. Quanto alto era, quindi, il rischio che Legion fosse un qualcosa di già visto? Solo un nome in più da aggiungere ad una lista già tanto ricca che ogni new entry si disperde come un granello di sabbia in un deserto sconfinato?
Non un nome in più ma il nome che non c’era
Solo che Noah Hawley non è uno sceneggiatore di serie tv qualunque. E la Marvel Television, che produce la serie per FX, non è una ottusa casa di produzione che impone ai suoi autori di seguire certe regole canoniche standardizzate e pertanto prive di originalità. Il felice matrimonio tra la fervida inventiva di Hawley e la libertà creativa concessa dalla Marvel, unita alla scelta di un personaggio per certi versi atipico nel pur variegato universo dei fumetti, ha generato non un’altra serie tv sui supereroi, ma un unicum il cui solo difetto potrebbe essere l’irripetibilità (perché difficile immaginare una seconda stagione che sappia offrire più spunti di questo meraviglioso esordio).
Giunti al season finale, è doveroso sottolineare quanto importante sia stata Legion nel vasto panorama della serialità televisiva. Perché Legion è stata una serie che ha avuto il coraggio di essere se stessa senza affannarsi ad inseguire i presunti desideri del pubblico di riferimento per prodotti di questo tipo. Otto episodi che hanno saputo sperimentare soluzioni sceniche che potevano sembrare pericolosi azzardi (interi minuti con l’audio staccato, imitazioni del cinema muto, balletti apparentemente fuori contesto), ma che hanno finito per risaltare per la loro innovativa unicità.
Una storia che non è stato un viaggio da un punto di partenza ad uno di arrivo, ma piuttosto un’introduzione necessaria non a farci conoscere il protagonista della serie, ma piuttosto a presentarlo a se stesso, a renderlo consapevole della sua condizione. Un racconto che ha avuto inizio suggerendo che l’antagonista dell’eroe fosse al suo esterno per poi, invece, perdersi programmaticamente in un labirintico viavai nella mente del protagonista dove si annidava il vero villain. Una trama orizzontale che ha, quindi, violato anche il patto non scritto con lo spettatore rinunciando ad una linearità esplicativa in favore di una circolarità complessa che ha chiesto a chi guardava di sforzarsi di seguire le volute contorsioni di una mente schizofrenica. Tutti aspetti che hanno permesso alla serie di non accontentarsi di essere solo un ennesimo capitolo magnificamente scritto di un libro già iniziato da altri, ma piuttosto un romanzo inedito di chi ha conosce la letteratura precedente e intende crearne una nuova.

Seguire la corrente dopo averla creata ex novo
Paradossalmente, l’unico momento in cui Legion assomiglia di più a quei canoni da cui si è distaccata per tutta la prima stagione è stato proprio nel suo capitolo conclusivo. Un season finale che sembra voler rinnegare la filosofia innovativa che ha fatto da bussola fino allo scorso episodio, scegliendo per la prima volta uno sviluppo lineare classico senza concedersi alcun virtuosismo registico o tecnicismo esagerato. Ciò che tutti si aspettavano è, infatti, avvenuto.
L’eroe vince, ma il nemico non è definitivamente sconfitto così che può tornare nella prossima stagione. Nuove alleanze nascono e vecchi amici si perdono dolorosamente. Uno svolgimento molto semplice e lineare con David che riesce a liberarsi del Demone dagli Occhi Gialli grazie al macchinario ideato da Oliver e Cary, ma soprattutto all’intervento provvidenziale di Syd che, seguendo ancora una volta uno schema classico, si sacrifica in nome dell’amore. Sarà poi il passaggio da Syd a Kerry prima e da lei a Oliver dopo lo scontro di titani con David a lasciare come unica vittima l’alfiere degli anni Settanta, quando aveva appena recuperato il ricordo del legame con Melanie.
Una concessione agli standard del genere che potrebbe sembrare deludente, ma che è invece necessaria per non lasciare questioni irrisolte con il solo scopo di accalappiare in modo banale lo spettatore per una seconda stagione già confermata. Eppure, anche in questo season finale classico, Hawley riesce ad inserire un tocco delicato di originalità lasciando che l’apertura sia dedicata non a David, ma a quell’agente Clarke che avevamo lasciato sfigurato dalle fiamme di Syd. Pochi minuti sufficienti a disegnare un personaggio che si sottrae alla banalità di un villain anonimo apparendo invece mosso dal solo desiderio di punire la sofferenza inflitta non tanto a lui, ma al suo compagno e al figlio adottivo. Una venatura vagamente romantica che rende credibile la probabile alleanza finale.

Un omaggio alla Marvel per una sorpresa speciale
Pur nella sua completa originalità, Legion è una serie legata al mondo Marvel e proprio alla fine gli autori ce lo ricordano rubando quello che è ormai il marchio di fabbrica della Casa delle Idee. Una scena post titoli di coda che annuncia in maniera sintetica il prossimo capitolo della storia, lasciando lo spettatore con il pantagruelico appetito di sapere cosa verrà dopo. Cosa è quella sfera che cattura David e dalla quale sembra non poter uscire? Chi l’ha inviata e perché? Proprio quando era prevedibile che la serie si sarebbe mossa verso sud all’inseguimento di un Oliver posseduto da una Lenny, ripresasi dalla versione dark di un Beetlejuice molto meno innocuo dell’originale, i pochi minuti post credits disegnano un nuovo inatteso scenario che si intreccerà con la caccia allo Shadow King. Senza dimenticare che un altro mutante è probabilmente in arrivo, dal momento che il generale che seguiva a distanza gli eventi ha pronunciato una frase (“send in Equinox”) che potrebbe far riferimento all’omonimo personaggio Marvel.
Legion chiude la sua prima stagione con un season finale che potrebbe apparire quasi una pausa chiarificatrice nella labirintica avventura che abbiamo vissuto in questa prima stagione. Ma soprattutto l’originalità attenta della scrittura, il virtuosismo della messa in scena, la bravura incontestabile del cast (con un Dan Stevens e una Aubrey Plaza a spiccare non solo per la recitazione, ma anche per la mimica del corpo e una Rachel Keller decisa a confermare l’ottima impressione guadagnata ai tempi della seconda stagione di Fargo) ci lasciano con la certezza che il 2017 ha già proposto il suo candidato ideale al premio di miglior serie dell’anno.
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