
Lean on Pete: la recensione del film di Andrew Haigh a Venezia 74
È stato presentato in anteprima alla 74° Mostra del Cinema di Venezia Lean on Pete di Andrew Haigh. Pubblichiamo la recensione di Lorenzo Tardella.
Titolo: Lean on Pete
Genere: drammatico, avventura
Anno: 2017
Durata: 121 min
Regia: Andrew Haigh
Sceneggiatura: Andrew Haigh, Willy Vlautin (romanzo)
Cast principale: Charlie Plummer, Travis Fimmel, Chloë Sevigny, Steve Buscemi
L’America.
Si porta sempre dietro l’idea della grandezza, degli spazi dilatati, degli uomini che si fanno piccoli per lasciare che l’inquadratura si allarghi a dismisura.
Si porta sempre dietro il viaggio, la sfida dell’ignoto, la mèta mai sicura ma destinata a rivelarsi lungo il percorso.
Si porta anche dietro la crescita, quella del corpo e quella dello spirito, quella che nasce dal confronto e dall’incontro, dall’entrare nelle case degli altri e dal vestire i panni di altre persone.
Andrew Haigh, il regista di Weekend e del pluripremiato 45 anni, viene dall’Inghilterra ma l’America la conosce dalla pagine dei grandi romanzi, quelli di Steinbeck e quelli di Ford, o dall’epica dei film che li hanno tramutati in immagini. Al centro del suo Lean on Pete c’è un quindicenne biondo dal viso pulito e dall’animo puro, senza una madre e con un padre che è quasi un fratello. Va a correre tutte le mattine, sembra non avere amici o qualcuno con cui aprirsi. Bisbiglia piuttosto che parlare.
L’incontro con un cavallo zoppo di nome Lean on Pete cambierà ogni cosa, porterà nella sua vita persone e luoghi, gli farà conoscere se stesso e trovare, forse, un posto nel mondo.
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Il film di Andrew Haigh è un racconto delicato e sottile, fatto di silenzi più che di parole, di spazi aperti in cui perdersi e di case che descrivono tanto bene la vita delle persone che ci vivono.
È anche uno sguardo sull’America di oggi, sul suo modo di relazionarsi, sul suo essere sempre uguale eppure sempre diversa. L’America come possibilità di libertà, come sfida, come riscatto.
È un film dall’incedere semplice, lineare, che ha nelle parentesi e nelle digressioni i suoi veri punti di forza, perché sta a loro il compito di descrivere un mondo e nel farlo profondamente, senza restare in superficie o fermarsi allo stereotipo. Qualcuno parlerà di lungaggini, di annacquamenti, ma la verità è che sono fondamentali quanto e forse più della storia stessa.
Non c’è sinossi, trailer o poster che potrà riassumere il significato di questo film, la sua essenza primitiva, proprio perché, come tutte le grandi storie del grande schermo, vanno vissute più che viste.
Lean on Pete va aggiungersi a quella manciata di grandi film che ci hanno raccontato cosa vuol dire crescere, scoprirsi, guardare fuori da noi per riuscire a guardarsi dentro.
In questo, e in molto altro, è un film che si candida a diventare un classico. Proprio come classico è il suo epilogo a metà fra Truffaut e Dolan, perfetto, cristallizzato ed eterno.
Il cinema che si fa specchio.
Il cinema che ti guarda.