
Katla: dalle viscere del passato – Recensione della serie islandese di Netflix
Magari non per tutti è la cosa più difficile, ma per molti trovare un buon incipit è impresa alquanto complicata. Di certo lo è per il sottoscritto.
D’altra parte, ci sarà un motivo per cui si dice che chi ben comincia è a metà dell’opera. Lo sanno ancora di più gli autori di una serie tv dove i primi minuti della premiere sono di importanza capitale per attirare lo spettatore vicino alla rete in cui si spera di intrappolarlo per tutta la durata della stagione. Ne è ben consapevole Baltasar Kormakur, regista, sceneggiatore e creatore di Katla, la prima serie islandese originale di Netflix.

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Una natura lunare e leopardiana
Katla si apre con l’immagine di una ragazza nuda con il corpo completamente rivestito di uno spesso strato di cenere e fango. Sembra nascere con fatica da un terreno arido in una grotta da cui esce trascinandosi a fatica tra i ghiacci perenni e la lava incandescente di un vulcano sormontato da un mastodontico fungo di fumo grigio durante un’eruzione quieta e implacabile. La regia alterna primi piani sul corpo incrostato e gli occhi spaventati ad immagini più ampie, ma ugualmente opprimenti per i grigi che coprono tutto sottraendo ogni luce e colore. Un inizio che ha il pregio di racchiudere quello che si riveleranno essere i tratti più caratteristici dell’intera serie.
Proprio come la ragazza dell’incipit che verrà trovata per caso da ricercatori che studiano l’eruzione che dura da un anno, Katla è una serie che si muove lenta e faticosamente perché invischiata tra cenere e fango. La cenere che appesantisce gli animi dei pochi abitanti rimasti ostinatamente nel villaggio di Vik ai piedi del vulcano. Il fango in cui sono impastati i loro sentimenti legati a drammi presenti o passati che si sono sedimentati impedendogli di andare avanti. Vite da cui i colori della serenità e della gioia sono spariti coperti dal fumo perenne di rimorsi e ricordi. Vittime di una eruzione costante di dubbi e domande con troppe risposte tra cui scegliere che si trascinano da tempo in una placida monotonia come quella del vulcano che stancamente prolunga la sua attività sismica in una minaccia continua che non si esaurisce, ma neanche si realizza mai.


Come la ragazza partorita dal vulcano, Katla non può fare a meno di muoversi nel suo ambiente naturale. Quello creato da una natura matrigna che ricorda la concezione di quel Leopardi che fece proprio di un islandese il protagonista del suo dialogo con la natura. Il paesaggio lunare creato dal vulcano è lo sfondo perfetto per una serie che è il racconto di vite in trappola. Di persone che in quella gabbia che è la loro prigione si sono rinchiuse da sole incapaci di accettare che i drammi avvengono né per colpa loro né contro di loro.
La fissità immutabile del vulcano che erutta, i cieli cinerei, i venti bizzosi, le onde agitate sono tanti piccoli memento che la natura intorno manda agli abitanti di Vik per ricordar loro quanto essa stessa diceva all’islandese di Leopardi. Quel sincero quanto crudele “sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro che alla felicità degli uomini o all’infelicità”.
Una sincerità che rende ancora più pesanti i drammi dei protagonisti di Katla. Costretti a soffrire anche per l’impossibilità di accettare che drammi per loro tanto grandi siano insignificanti davanti alla magnificenza indifferente della natura.
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Il folklore al servizio del drama
Per ragioni puramente di marketing, Katla è stata annunciata come un thriller fantascientifico. In verità, di fantascienza ce n’è davvero poca e quella poca è gestita in maniera piuttosto raffazzonata e poco convincente negli ultimi due episodi. D’altra parte, la stessa serie propone un’interpretazione delle figure che arrivano dal vulcano più legata al fantasy che, tuttavia, non viene comunque approfondita più di tanto. Più presente è, invece, la componente thriller anche se relegata ad una sola delle storyline parallele che la serie segue. Se funziona bene, pur nella sua prevedibilità, è merito più che della capacità del piccolo Mikael che della volontà degli autori di insistere su questo aspetto.
Katla è piuttosto un family drama sui generis. Ciò che interessa alla serie non è, infatti, chiarire chi sono coloro che arrivano dalle viscere del vulcano. Il focus è piuttosto come e perché la loro presenza si lega ai drammi privati degli abitanti di Vik. Non è importante, quindi, come Asa sia ricomparsa dopo un anno, ma come la sua presenza vada a smuovere la stasi in cui Grima è bloccata e il suo rapporto con il rassegnato marito Kjartan.
Non conta quanto cattivo sia il piccolo Mikael, ma come il suo ritorno permetta a Darri e Rakel di affrontare la loro crisi coniugale figlia dei troppi non detto. La Gunhild di venti anni fa ricomparsa permette a Thor e alla Gunhild di oggi di confrontarsi finalmente col passato per gettare le fondamenta di un nuovo domani. Ed anche le due Magnea sono funzionali a svelare la verità dell’ossessione religiosa di Gisli.
Sono i suoi personaggi il tessuto con cui Katla compone un arazzo mirabile che si disegna davanti agli occhi dello spettatore con una studiata lentezza. Un ritmo che a volte risulta anche troppo dilatato, ma che è coerente con quella mancanza di fretta che caratterizza le genti abituate a vivere lontano dalla schizofrenica frenesia a cui siamo da troppo tempo abituati. Al contrario, la serie preferisce indugiare su particolari apparentemente marginali per sottolineare come anche nelle piccole cose possano nascondersi segreti e ricordi. Ottimo, da questo punto di vista, il lavoro fatto dalla regia che raggiunge il massimo nel drammatico finale e nelle scene tra Grima e Kjartan.
Katla è una serie che preferisce restare fedele ai modi e ai tempi dei suoi protagonisti. Senza snaturarli solo per piacere di più a chi a quei modi e tempi è avulso. Un prendere o lasciare estremo, ma sincero.
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Il coraggio di non tacere
Con una scelta insolita per una rete che punta al pubblico più ampio possibile, Katla è fortemente sconsigliata ai minori di quattordici anni. Non per scene di violenza o sesso, ma perché la serie non ha paura di affrontare temi forti. Nei suoi otto episodi trovano posto argomenti come il suicidio, la religione come ossessione, il sesso durante malattie disabilitanti e dopo una certa età, l’aborto, l’omicidio. Tutti affrontati con una sorprendente serenità che finisce quasi per farli apparire come parte inevitabile della natura umana. Gli autori sembrano astenersi da ogni giudizio. Lasciano che siano i protagonisti a fare le loro scelte anche quando sono fuori da quello che la morale pubblica potrebbe giudicare corretto. Illuminante, in tal senso, è il finale della storia di Asa e il modo in cui vi assiste Grima. O il modo in cui Gisli si rapporta alla moglie malata.

Sicuramente i momenti di maggiore impatto sono legati alle parole e alle azioni di Mikael che vanno a rompere il tabù dell’innocenza dei bambini. Come ancora più scioccante è il modo in cui le azioni finali di Darri e Rakel vengono mostrate nella loro crudezza, ma soprattutto quasi giustificate. Paradossalmente, i due sembrano quasi trovare un lieto fine proprio grazie a quello che è il gesto più estremo e inaccettabile che due persone possano compiere. Eppure, gli autori di Katla non si lasciano fermare dalle probabili critiche. Sanno che quel finale è il doloroso cerchio perfetto per chiudere la storia raccontata fino a quel momento. Impensabile, inaccettabile, inconcepibile. Ma necessario.
Katla arriva dall’Islanda per mostrare che troppo spesso è sotto la cenere che sedimentano i dolori che impediscono di andare avanti. E che è dalle viscere del passato che bisogna andare a ripescarli per affrontarli e vivere di nuovo.