
Jurassic World: la recensione
A Hollywood amano coniare espressioni idiomatiche per ogni situazione particolarmente positiva o negativa del lungo e periglioso processo che porta una idea potenzialmente interessante a diventare un film per il grande schermo. A questo fantasioso gergo dell’industria cinematografica appartiene anche il termine “development hell” che sta ad indicare progetti rimasti allo stato embrionale per molto tempo per poi essere completati a distanza di anni dall’idea originale se non addirittura cancellati. I 14 anni trascorsi da “Jurassic Park III” e i 22 dall’uscita del capostipite della serie sono un tempo più che sufficiente a catalogare questo “Jurassic World” (ideale quarto episodio del munifico franchise) come esempio ideale di “development hell”. E, ironicamente, la lunga attesa termina in modo quasi prematuro perché la sceneggiatura finale che riporta dinosauri vecchi e nuovi sullo schermo sembra paradossalmente scritta di fretta con il solo intento di avviare una nuova macchina da soldi.
Perché l’idea che sta alla base di “Jurassic World” avrebbe potuto essere approfondita con meno fracasso e maggiore lucidità, mentre invece viene servita solo come casus belli per adrenaliniche scene da action movie che, pur riuscendo ad essere spesso accattivanti e avvincenti, non sfuggono ai classici canovacci di una prevedibilità scontata (tanto che è facile intuire subito chi, come e quando saranno le vittime dei feroci rettili ribelli). Succede al parco di “Jurassic World” quello che è accaduto al franchise originale. Così come in ogni parco giochi l’interesse del pubblico scema rapidamente se mirabolanti attrazioni novelle non intervengono a frenare il calo di attenzione, allo stesso modo anche i conti del parco giochi dove sono i giochi a poter giocare con te (perché un dinosauro non è esattamente il prototipo di un cucciolo mansueto) rischiano di tingersi di un dannoso rosso se nuove specie non vengono create da una demoniaca ingegneria genetica. Se anche i blockbuster avessero un’anima (e, fortunatamente, capita che alcuni la abbiano), la commercializzazione della vita animale, l’asservimento della scienza alla logica del denaro, il senso di onnipotenza irresponsabile di chi si sente creatore senza capire cosa voglia dire esserlo sarebbero temi etici meritevoli di una attenta discussione e, seppur blandamente, questo avveniva nel primo film (grazie agli scambi di battute tra i personaggi di Richard Attenborough, Sam Neill e Jeff Goldblum). Nulla di tutto ciò avviene, invece, in “Jurassic World” che sembra, al contrario, aver fatto del “non puoi stupire più la gente con un dinosauro nel 2015” un mantra irrinunciabile per giustificare il ricorso impietoso a qualunque mezzo sia capace di sorprendere (nel bene o nel male poco importa) lo spettatore pagante. E quindi via ad una sarabanda caotica di vecchi dinosauri riproposti in contesti aggiornati (come i tranquilli giganti erbivori in mezzo a cui passeggiare in una tecnologica palla da criceto), cuccioli pacifici usati al posto delle caprette da accarezzare per i più piccoli, nuovi mostri marini (l’impressionante mososauro) serviti come versione extralarge degli spettacoli con orche e delfini, vecchie glorie divenute oggetto di morbosa curiosità (il T – Rex a cui servire come pasto la stessa capretta di anni fa), fino all’inevitabile new entry a cui affidare il ruolo del cattivo di turno.
Non che il regista Colin Trevorrow (il cui scarno curriculum fa supporre che sia stato scelto solo per fungere da yes man per il ben più esperto Spileberg nel ruolo di plenipotenziario produttore) manchi l’obiettivo non dichiarato ma palesemente esplicito del film. Complici i prodigiosi progressi della CGI (e il paragone tra i dinosauri del primo “Jurassic Park” e gli odierni è un trionfale elogio della tecnologia moderna) e il furbesco ricorso ad un citazionismo pop (con il dinosauro artigliato come il temibile mostro di “Alien” e l’attacco degli pterosauri che omaggia le scene simili nel capolavoro hitchcockiano “Gli uccelli”), il film riesce a restituire lo stesso sense of wonder del primo capitolo della serie grazie anche ad un 3D che si mette efficacemente al servizio della causa. Consapevole che il pubblico in sala sarebbe stato composto sia da bambini avidi di vedere i dinosauri emergere da libri colorati per muoversi imponenti sul grande schermo che dai loro genitori che la stessa esperienza avevano vissuto 22 anni fa, Trevorrow e soci non fanno mancare riferimenti al capitolo uno richiamando in attività persino l’animazione vintage di Mr DNA e riaccendendo i motori delle stesse jeep che avevano scarrozzato e salvato i protagonisti del primo film. E non è un caso che un ruolo fondamentale venga giocato da Velociraptor e T – Rex, quasi che Spielberg volesse ringraziare i veri protagonisti del blockbuster che lo proiettò al vertice della catena alimentare hollywoodiana.
Ventidue anni fa “Jurassic Park” faceva di Steven Spielberg il dominus incontrastato di Hollywood permettendogli una libertà di azione che ha saputo sfruttare bene (“Schindler’s list” e “Salvate il soldato Ryan” sarebbero stati possibili se Spielberg non avesse avuto i pieni poteri ?) pur con qualche evitabile caduta di stile. Ventidue anni dopo “non puoi stupire più la gente con un dinosauro”, ma puoi uscire da un “development hell”. Basta questo a far guadagnare la sufficienza piena a “Jurassic World”, ma per i voti alti serve altro.
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Out of hell
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